E’ con un ossimoro che desidero dare titolo a questo articolo. In mezzo alle ingorde celebrazioni olimpiche ci si dimentica, o meglio si vuole dimenticare, chi è l’ospitante.
La Cina: Un paese che ha come unico scopo quello di autocelebrare la propria grandezza, in un delirio nazionalista di onnipotenza che sembra aver abbagliato gli ultimi lucernari di principi etici e morali che dovrebbero ancora illuminare le scelte di alcune vecchie democrazie.
Ma l’occidente, perché di questo si parla, è ormai schiacciato (nel suo rapporto con la Cina) tra l’incudine del suo perenne senso di colpa (l’antica guerra dell’oppio che la Cina usa ancora come argomento propagandistico di rivalsa) e il martello del suo asservimento economico e commerciale nei confronti delle neo grandi potenze geopolitiche. Questo è il motivo per cui, esso, in una specie di shock amnesico, ha rinunciato a fare sentire almeno la propria voce sulle politiche di Pechino di hanizzazioni forzata delle province autonome più periferiche, come da ultimo nello Xinjiang con la minoranza Uigura. Ma non dimentichiamo che la Repubblica Popolare Cinese attua questa pressione culturale, economica e politica anche nei confronti di repubbliche indipendenti come Taiwan (fondata dal Kuomintang di Chiang Kai-shek nel 1949 come nuova patria dei nazionalisti cinesi sconfitti dai comunisti di Mao Zedong) e regioni amministrative speciali come Hong-Kong che, pur essendo popolate al 98% dall’etnia han, non riconoscono la sua “visione” (per usare un eufemismo) politica ed economica.
La politica Ground zero dell’attuale regime viene da lontano
Ricordo che quando mi recai nel 1996, sotto l’era di Deng, per studio e lavoro, nella provincia dello Hebei, nella municipalità di Beijing (Pechino) e nella colonia britannica di Hong-Kong, (Hong-Kong era ancora inglese), fui testimone privilegiato della nuova rivoluzione che si stava preparando in quel paese.
Tanto che il libro QUANDO LA CINA SI SVEGLIERA’…il mondo tremerà di Alain Peyrefitte, (frase che avrebbe pronunciato Napoleone Bonaparte) letto un paio d’anni prima e scritto negli anni ’70, mi sembrò assolutamente lucido e attuale, malgrado gli scenari da fantapolitica che descriveva. Negli anni ’90, si parlò della rivoluzione economica (come le zone economiche speciali) intrapresa da Deng Xiaoping e portata avanti con furore da tutti i successori. Le attuali politiche periferiche di regime, in campo economico e sociale, sono lo specchio di politiche di ground zero interno, in atto in sordina da anni nel paese. Basti pensare che a Pechino, dove sono stato, era già in atto lo spianamento edilizio nei confronti della vecchia città, in cui interi quartieri della tradizionale edilizia popolare (i quartieri con vecchie mura di cinta intervallate da oblò, comunicanti tra loro, e le cui vestigia si possono vedere ancora nella città proibita che si affaccia su Piazza Tiananmen) venivano e vengono rasi al suolo per far posto ad anonimi quartieri reticolati (anche più facili da controllare dall’onnipresente regime), ai faraonici complessi commerciali e finanziari. Quindi, prima ancora che espansione economica virulenta verso le province esterne (ormai impossibile da nascondere all’estero) vi era atto da decenni una tabula rasa infrastrutturale visante a cancellate le identità del passato. Nel caso di Pechino, ad esempio, quella mongola e manciù vissute sempre, dalle gerarchie di partito, con reazioni urticanti. E ci sono riusciti, spersonalizzando e ridicolizzando anche i vecchi monumenti imperiali come la città proibita (divenuta celebre in film come “L’ultimo imperatore”) e ridotta oggi a simulacro pacchiano e consumistico per le nuove classi medie cinesi.
Pochi sanno, ad esempio, delle traslazioni forzate di massa di interi villaggi e città (che costano ribellioni e morti ovunque) per far posto a dighe, oleodotti, gasdotti e strade asservite ai nuovi progetti della via della seta.
La cosa più grave, a mio avviso, è che il governo cinese attua nei confronti del suo popolo la stessa spregiudicatezza e distaccata indifferenza per le quali venne accusato l’occidente all’epoca della rivolta dei boxer; Né più, né meno. Il popolo è percepito come numero e tutti sono sudditi, con pochi diritti e molti doveri, il primo dei quali è servire pragmaticamente il regime e l’imperativo dello sviluppo economico. La stretta sui singoli per la loro omologazione inizia presto in Cina, già a scuola dove la pressione competitiva obbliga gli studenti a riuscire ad ogni costo e ad adeguarsi presto ai riti collettivisti del conformismo di regime. In Cina, le eredità comuniste sono confluite in un nazionalismo fanatico, dalle caratteristiche destroidi, del successo e dell’arricchimento ad ogni costo.
Questo è il quadro.
Xinjiang Uyghur, una regione autonoma ridotta a campo di rieducazione
E qui arriviamo al punto. Quello che sta accadendo nello Xinjiang è la naturale prosecuzione di politiche attuate fin dalla rivoluzione culturale del 1966.
Lo scopo, come per altri territori tristemente celebri come il Tibet, è quello di azzerare le velleità identitarie e indipendentiste delle province autonome (in questo caso dello Xinjiang abitata in prevalenza dagli Uiguri di origine turcomanna e di fede islamica che conta circa 11 milioni di abitanti) ma anche molte altre etnie minoritarie, come i Kirghisi, i tagiki, i mongoli, russi, uzbechi, kazaki e mancesi. Perché lo fa?
Prima di tutto, per un motivo economico; per consentire alle nuove faraoniche infrastrutture in costruzione, destinata a collegare il centro del paese con le nuove vie della seta (sono in opera giganteschi treni a AV, che collegheranno la Cina alle repubbliche centrasiatiche favorendo la nuova via della seta) di cui lo Xinjiang costituisce un ponte.
Poi c’è la questione centrale delle risorse minerarie e fossili, tutte concentrate nelle province periferiche dell’immenso paese. La Cina ha una fame atavica di materie prime e energia. Chiunque si frapponga tra lei e il suo mirabile e fantasmagorico sviluppo, deve essere semplicemente annientato come nemico del progresso secondo, naturalmente, il paradigma cinese.
In secondo luogo, per una questione culturale, che molti occidentali sottovalutano. I cinesi (intesi come paese popolato dagli han), hanno una visione etnocentrica, quasi aristotelica, della Cina nei confronti del resto del mondo e, all’interno, nei confronti delle altre minoranze, Questa concezione si espleta tramite un nazionalismo intransigente di superiorità dell’identità Han. Loro stessi continuano a vedersi come l’impero di mezzo tornato, dopo anni di sudditanza coloniale, al suo antico e naturale splendore. Questa visione così viscerale della propria identità si è sposata, in modo quasi naturale, con le istanze collettiviste e centraliste del partito comunista che ha sempre visto (al pari degli imperatori del passato) le prerogative individuali intollerabili, come un intralcio alla grandezza ed efficienza di una nazione. Per questo loro ci guardano, quasi stupiti che stiamo ancora in piedi. Loro, se devono costruire una strada, non hanno bisogno di carte bollate e dibattiti con le istanze locali, lo radono al suolo e spostano gli abitanti dove più gli pare.
Pensate che nei due mesi in cui sono stato a Pechino, sono stati costruiti due imponenti palazzi di vetro, con lavori che andavano avanti anche la notte. Non va mai dimenticato che i cinesi sono scevri da quel dualismo occidentale, sui cui noi ci rompiamo filosoficamente la testa ogni giorno, visione che spesso sfocia nel manicheismo di giudizio. Mi viene in mente che per i cinesi non c’è divisione tra il bene e il male, ma tra il giusto e l’ingiusto, dove il giusto è inteso secondo la visione confuciana, dell’economicamente e gerarchicamente conveniente.
Ecco perché, come in Tibet, anche nello Xinjiang si assiste alla “rieducazione” forzata delle minoranze nei confronti della visione han del mondo (eliminazione degli idiomi locali, scuole cinesi e cancellazione delle peculiarità urbanistiche) e alla contemporanea colonizzazione di intere comunità in quei territori dalle popolose province del sud est, allo scopo di trasformare in breve tempo le maggioranze locali in minoranze.
L’ultimo motivo (il meno solido), può essere ricollegato alle infiltrazioni islamiste, che nel passato recente hanno provocato numerosi attentati nella capitale Urumqi e città come Kashgar. Da quel momento, Xi Jing Ping, ha attuato, nei confronti degli Uiguri ormai percepiti come potenziali terroristi, una svolta repressiva e autoritaria. Ha preso così le distanze da suo padre, Xi Zhongxun, che invece riteneva che l’integrazione completa al modello cinese, dovesse avvenire con l’assimilazione attraverso il miraggio dello sviluppo economico, ma senza violentare le tradizioni locali.
Tra l’altro studiando la vita di Xi Jing Ping, scopriamo un padre condannato a morte dal partito comunista per le sue posizioni poco ortodosse, condanna poi commutata in carcere a vita. Poi, Il suicidio della sorella, abusata dalle guardie rosse; e un giovane Xi Jing Ping inviato nello Shanxi in un gruppo di produzione per essere rieducato ai valori della rivoluzione vivendo in una grotta assalito dalle pulci. Quanto questi racconti siano veri o quanto invece appartengano al mito della genesi che possa giustificare l’ascesa del moderno imperatore, è un’altra storia.
Tutte queste ragioni, sono solo una linea di tendenza di fondo della Cina moderna, ma non devono indurci a facili generalizzazioni, né farci omettere di studiare la storia della Cina. Un libro stupendo per capire la sua storia contemporanea, senza arenarsi sulla saggistica densa e pesante, è il libro ” Cigni selvatici, tre figlie della Cina” Di Jung Chang.
I campi di rieducazione spacciati per istituti scolastici di formazione degli Uiguri
Le fonti ufficiali si ostinano a definire quelle aree di contenimento (che secondo le immagini dei satelliti, stanno aumentando in maniera inquietante), aree di rieducazione degli uiguri, alla stregua di istituti scolastici di formazione professionale. Purtroppo per le autorità, però, alcuni osservatori internazionali con camera nascosta, hanno documentato come le strutture siano circondate da filo spinato. Ora, non risulta in nessun luogo al mondo che sia prevista nell’edilizia scolastica, anche la costruzione di mura perimetrali e filo spinato, almeno che non si voglia detenere gli “studenti con la forza” e non si voglia impedire ad esterni di entrarvi.
Il canale franco tedesco di Arte ha (uno dei pochi canali veramente liberi e connessi con i problemi del mondo) ha pubblicato una serie di documentari sugli Uiguri (uno è qui) che non lasciano adito ad alcun dubbio. Si tratta di campi di rieducazione forzata attuata attraverso il lavaggio del cervello, l’intimidazione e la tortura fisica, altro che scuole cinesi di formazione professionale.
Arriviamo alla conclusione per dire che, in tutto questo, trovo scandaloso il silenzio sugli uiguri e su quello che stanno vivendo (un vero e proprio genocidio culturale), mentre a Pechino c’è il delirio del trionfo scenografico della Cina come potenza, più che dei singoli come atleti. Il regime vive le olimpiadi come fosse una parata propagandistica del partito, della sua imbattibile organizzazione e del suo splendore economico. L’occidente, avvallando questo suo smisurato ego, porta l’acqua al mulino dell’invulnerabilità e dell’inattaccabilità del regime personificata da Xi Jingping.
Non si vuole togliere nulla agli atleti, ovviamente, hanno pochi anni per coronare i loro successi, ed è giusto che sia così, ma ci si sarebbe aspettato almeno dagli organi istituzionali internazionali un piccolo pro memoria sulle molteplici nefandezza che il regime compie impunemente in casa propria. Molti cinesi dissidenti (e sono sempre di più) non capiscono l’atteggiamento strabico di un occidente che si fa palladino dei diritti umani con un occhio e con l’altro guarda con quiescenza i delicati interessi economici e geopolitici.
Ed intanto Uiguri, tibetani e da ultimo i cittadini di Hong-Kong, devono difendersi da soli (lotta senza speranza) contro la più grande potenza imperialista del XXI secolo. Amen.