12 agosto 1944, l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema

Paolo Conte 12 agosto 2022

A Sant’Anna di Stazzema, esattamente, il 12 agosto del 1944, fu commesso uno degli eccidi più spaventosi della guerra di liberazione. Tornarci oggi, significa ridare la dimensione reale ad un episodio che, finché i rullii della guerra sono o appaiono lontani, viene spesso ammantato dalle liturgie commemorative, di cui spesso si finisce per perdere il vero senso. Il senso e il monito della storia che può ripetersi.

Andare a Sant’Anna, nel 2022, con una guerra alle porte, quella dell’Ucraina, di quell’Europa e di quell’era sicura che si credeva “ormai” eterna, assume un significato totalmente nuovo, specie alla luce delle atrocità commesse anche oggi, a mano a mano che osservatori internazionali neutrali giungono sulle zone di battaglia, come a Bucha. A Sant’Anna ci sono andato per meditare sul presente a tinte fosche. Questo è stato il senso del pellegrinaggio. Capire, se mai ce ne fosse bisogno, quanto sia costata la democrazia e quanto costa custodirla e proteggerla oggi.

Foto scattata da me a marzo del 2022, nei pressi di Sant’Anna, a sinistra l’edificio del museo della resistenza, una volta la scuola di Sant’Anna.

Quando si arriva a Sant’Anna, compare, a mezza costa, uno sparuto gruppo di case che non fanno assomigliare affatto la vera Sant’Anna a quella del film di Spike LeeMiracolo a Sant’Anna, girato prevalentemente a Colognora di Pescaglia, per le riprese ambientate nel centro del paese. Proseguendo ancora, si arriva davanti alla chiesetta di Sant’Anna, luogo del massacro, chiesetta davanti alla quale, è stato ambientato (questa volta si) l’evento reale nel film. La chiesa di Sant’Anna è veramente piccola ma, come sempre, le chiese sperdute dei nostri Appennini, nasconde all’interno dei piccoli tesori.

Fuori dal suo portone (tornando alla nostra data), furono uccise dai tedeschi, in maniera crudele e premeditata, 560 tra donne, anziani e bambini. Il solo pensiero lascia un senso di estraneamente che rende impossibile elaborare quanto accaduto e cosa devono aver provato quelle persone. Non entrerò nella cronistoria dell’evento o nell’escatologia, cioè nella sequenza di eventi che hanno preceduto il massacro, internet e le librerie sono piene di libri sull’argomento. Basti sapere che le persone che si erano rifugiate a Sant’Anna, si ritenevano al sicuro perché era sito in una delle c.d. zone bianche (aeree neutrali dove potevano rifugiarsi gli sfollati) e provenivano da varie parti del paese. Ad un certo punto, Sant’Anna si è trovata nei dieci chilometri dalla linea gotica entro i quali, tutti gli abitanti avrebbero dovuto, su ordine diretto di Hitler, essere evacuati.  Ciò non accadde, anche le motivazioni sono controverse, lascio che ognuno si documenti al riguardo. Il risultato, fu che i tedeschi radunarono davanti al portone della chiesa tutti coloro che si trovavano in paese, compresi i bambini rifugiatisi nella scuola e tutti furono passati per le armi senza pietà; con il mitra, finché non rimasero praticamente tutti falciati dai proiettili che colpivano a caso in mezzo alla folla di persone.

Foto scattata da me relativa alla chiesetta di Sant’Anna

Ho provato ad immaginare per quanto tempo quei mitra abbiano dovuto sparare, per abbattere circa 560 persone, prima casa per casa, uccidendole nei modi più impensabili, fracassando loro il cranio (sorte toccata a due donne ritrovate denudate), impiccandoli, bruciandoli addirittura con il lanciafiamme (abbiamo qui in pochi ettari la personalizzazione di un massacro), per poi radunare il resto davanti ad una chiesa e finirlo a colpi di armi automatiche. Non è possibile immaginarlo, si può solo errare da una parte all’altra del paese, annichiliti, udendo l’eco spettrale delle mitragliate, le urla e le colline boscose dei dintorni farcite di inseguimenti e spari e, sempre con ottundimento, incappare nei segni reali del massacro. C’è invece un luogo dove è possibile mettere insieme tutti i cocci, i frammenti sfilacciati di quel tragico vissuto, sparpagliati tra alberi, tra le mura diroccate e gli angoli ciechi: è il Museo della Resistenza, insediato nella vecchia scuola del paese. Con quanto sacrificio deve essere stato progettato, preparato e costruito, lo si capisce dallo sforzo artistico di renderlo moderno e multimediale. Domina il mobilio chiaro e minimalista e tutto appare coerente, ordinato e chiaro, malgrado tutta la storia, come detto, sia stata un convulso susseguirsi di eventi disconnessi e brutali

Foto scattata da me nel museo della Resistenza di Sant’Anna

Nel museo, appaiono le vittime che possono finalmente dare un volto a quei frammenti vissuti caoticamente all’esterno, umanizzando, là dove possibile, quella disumanità incomponibile, quell’indistricabile coacervo di schegge taglienti, frammenti di roccia mancanti, frasi di dolore e di ricordi, riordinando e deponendo le urla di quelle persone in una morte dolce a cui non hanno avuto diritto nella storia. Ecco, sì, il compito di quello splendido museo, è di dare per sempre un giaciglio sicuro, posato, silenzioso ad un evento che fu farcito di spari, urla, fracassamenti e suppliche.

L’eccidio di Sant’Anna, secondo le testimonianze del libro, Versilia, la strage degli innocenti di Giorgio Giannelli, non fu una rappresaglia per la presenza di qualche decina di partigiani, ma un atto terroristico contro la resistenza popolare che aveva apertamente disubbidito l’ordine di  Kesserling di deportare 40.000 persone verso la provincia di Parma (sala Baganza) dove, tra l’altro, non avrebbero potuto trovare la benché minima accoglienza.

Ricordiamo che gli follati, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, non erano provenienti dai soli paesi limitrofi della zona, ma venivano anche da città come Genova, La Spezia, Napoli, Castellammare di Stabia, e poi Pavia, Livorno, Massa e così via.

A Sant’Anna l’eccidio avvenne in sole tre ore e in un’unica frazione di seicento abitanti, compresi gli sfollati. Le sue vittime erano quasi esclusivamente donne, bambini e anziani. Non c’erano partigiani, per il semplice fatto che i partigiani non erano lì e non c’era stata nessuna battaglia con i tedeschi lì attorno.

Foto scattata da me sulle vittime piccine di Sant’Anna sul pannello all’interno del museo

Don Giuseppe Vangelisti, parroco della Culla e della Chiesa di Sant’Anna, la descrisse così:

Posta in una vallata a circa 650 m sul livello del mare, nel comune di Stazzema, Sant’Anna si trova sulle pendici del Monte Lieto e in massima parte prospiciente il Monte Gabberi che domina in questa zona la criniera delle Apuane in faccia al mare.

La Zona di Sant’Anna è in quel bacino marmifero che ha fatto la fortuna della Versilia (Carrara e Forte dei Marmi) fin dall’epoca della Roma imperiale, ma che ha anche costretto intere generazioni ad un lavoro di fatica fisica logorante e malattie da invecchiamento precoce dell’apparato scheletrico e di quello polmonare (come la silicosi, che degenerava col tempo in enfisema polmonare e tubercolosi).

Per secoli, i versiliani avevano imparato ad accettare la silicosi come un destino ineluttabile, e chi avesse voluto sottrarsene era costretto ad emigrare in America e in altri luoghi d’Italia e d’Europa. Mio padre, per descrivere la condizione di miseria in cui versava una parte della popolazione a quei tempi, racconta spesso di un suo collega di lavoro che lasciò a piedi, e di notte, Montefegatesi (paese sperduto tra le montagne sopra Bagni di Lucca), per prendere all’alba la prima nave per New York. Negli anni che precedettero la tragedia, la gente viveva delle miniere di Pirite e Magnetite, riaperte nel 1940, perché le cave di marmo erano in crisi dal 1929 e molte imprese erano fallite.

In quei giorni, come nei secoli precedenti, gi abitanti di Sant’Anna erano impegnati al lavoro nei campi, mentre le pecore e qualche mucca erano al pascolo. I tedeschi non erano ancora saliti al paese e questo sembrava offrire un riparo sicuro alla gente che cominciava a popolarlo dalla pianura.

Erano rifugiati, come già detto, provenienti dai bombardamenti della Spezia, Livorno, Pisa, Genova e persino Napoli, cui erano seguiti gli ordini di sfollamento del comando tedesco. Pochi giorni dopo il 30 luglio, partigiani e tedeschi si erano scontrati sul Monte Ornato, e i tedeschi avevano appiccato il fuoco a casolari e capanne della zona, uccidendo vecchi e malati impossibilitati a fuggire. Poco dopo, si sparse la voce che Sant’Anna da zona bianca, zona in cui non era in vigore alcun obbligo di sfollamento, fosse stata dichiarata in zona nera, cioè da evacuare. L’ordine non venne seguito perché, nel frattempo, alcuni paesani di ritorno da Stazzema avevano rassicurato gli abitanti di Sant’Anna sul fatto che non fossero compresi nello sfollamento. In quei giorni, arriva il feldmaresciallo Kesselring e dopo di lui arriva, il 9 agosto 1944, Walter Reder, al comando del sedicesimo reparto esplorante granatieri corazzati. Il resto è storia. È inutile ricordare che l’eccidio avvenne anche grazie all’aiuto di collaborazionisti fascisti. Al termine della guerra ci vollero anni per avere giustizia, e le indagini e i processi andarono avanti per oltre un decennio.

Cosa può insegnarci Sant’Anna sulle moderne stragi come, ad esempio, quelle di oggi a Bucha o a Mariupol?

Prima di tutto, ci può insegnare a non credere mai alla favoletta delle due propagande. È vero che ciascuna parte belligerante si “macchia di propaganda”; ma c’è una bella differenza tra la propaganda del nemico sterminatore e quella del nemico che si difende.

Quale delle due è più credibile secondo voi? In quest’ultima guerra alle porte dell’Europa (anzi in Europa) si sta insinuando il metadone del relativismo che tende a negare che possa esserci una ragionevole verità delle cose, anche di fronte all’evidenza. il depistaggio dialettico ed ermeneutico viene utilizzato subdolamente, soprattutto dalle correnti cospirazioniste che appoggiano il regime di Putin, senza che abbiano mai il coraggio di ammetterlo apertamente.

Il gioco è semplice: si costruiscono dei cerchi concentrici sempre più ampi, partendo da quello centrale costituito da un fatto verosimilmente incontestabile (ad esempio la strage di Bucha); Si mettono in discussione le immagini (come è successo, ad esempio a Bucha), alimentando il dubbio sulla loro autenticità contestuale (con lo slogan: non erano immagini di quei giorni); dal dubbio contestuale si passa a supporre la messinscena (con lo slogan: le immagini sono state costruite ad hoc).  Così, fin dall’inizio, tutto viene avvelenato metodicamente dalla cultura dal sospetto (che essi spacciano sapientemente per dubbio). Una volta accertato che non si tratti di immagine false (e già questo occupa giorni, settimane di dibattici estenuanti che confondono ulteriormente la ragione in cui l’onere della prova spetta sempre alle vittime), i putiniani conducono l’opinione pubblica (smarrita) verso il cerchio più esterno, ancora un passo più lontano dal centro. In questo cerchio, riconoscono di non avere più dubbi sull’autenticità delle immagini (su pressione delle evidenze satellitari e ispettori internazionali), ma non su chi sia il vero responsabile. Dicono, se fossero stati gli ucraini (che comunque non riconoscono mai come tali) ad aver ucciso i propri civili per gettare fango sui russi (che non vengono mai definiti invasori)? Infine, c’è il cerchio magico più esterno, dove non solo l’aggressore è una vittima, ma il vero aggressore è occulto, volutamente astratto e intangibile. Ecco che un eccidio diviene un fatto irreale, improbabile, persino metafisico.

Si è partiti da chi fosse realmente l’aggressore e si arriva, per cerchi concentrici inversi, a negare la paternità di un eccidio. Non è folle?

Anche in passato, e l’eccidio di Sant’Anna non fa eccezione, la propaganda dell’aggressore cercò di ingannare la verità dei fatti. Ci furono molti tentativi, di imputare ai partigiani quello che invece era opera dei nazifascisti. E allora perché alla luce di questi fatti, di cui abbiamo esempi nella storia, ci ostiniamo a cadere nel tranello del dubbio, peggio del relativismo più tracotante?

C’è poi un altro aspetto grave. Una versione esponenziale dei cerchi concentrici, che afferma l’inutilità di aiutare l’offeso dall’aggressore. Che questo non farebbe altro che procrastinare la violenza. Si inventa un nesso di proporzionalità tra la resistenza dell’aggredito e la virulenza dell’aggressore. Si trattano le tragedie umane con il microscopio dell’entomologo, peggio, dell’infettivologo, e per giunta no vax. In altre parole, lasciate che l’organismo si arrenda all’elemento patogeno, perché usando tachipirine e antibiotici, se ne prolungherebbe la sofferenza e l’agonia. Si avete capito, si applica ad una guerra questa cinica teoria, solo apparentemente pacifista, ma molto vicina a quella eugenetica! Di pacifismo non c’è proprio nulla, se non il terrore che il malato paucisintomatico possa infettare anche noi, a nostra insaputa, e rovinare il nostro quadretto rassicurante.

Anche allora, come oggi, si falsificarono le notizie.

I nazisti, dal canto loro, ammisero di aver oltrepassato i limiti, mentre i fascisti continuarono a tacere, almeno pubblicamente. La negazione iniziale di una strage non è appannaggio solo della moderna guerra che stiamo vivendo in Ucraina. Ha sempre fatto parte delle guerre, di qualunque epoca.

Basta leggere cosa scrisse “Il Resto del Carlino” l’11 ottobre del ’44 sull’eccidio di Marzabotto-Monzuno e Grizzana, in cui in poco meno di 10 giorni furono uccise 1.830 persone:

Le solite voci incontrollate, prodotto tipico di galoppanti fantasie in tempo di guerra, assicuravano fino a ieri che nel corso di una operazione di polizia contro una banda di fuori legge, ben centocinquanta fra donne, vecchi e bambini erano stati fucilati da truppe germaniche di rastrellamento nel comune di Marzabotto. Siamo in grado di smentire queste macabre voci e il fatto da esse propalato. Alla smentita ufficiale si aggiunge la constatazione compiuta durante un apposito sopralluogo. È vero che nella zona di Marzabotto è stata eseguita un’operazione di polizia contro un nucleo di ribelli, il quale ha subito forti perdite anche nelle persone di pericolosi capibanda, ma fortunatamente non è affatto vero che il rastrellamento abbia prodotto la decimazione e il sacrificio di nientemeno che centocinquanta elementi civili. Siamo, dunque, di fronte a una nuova manovra dei soliti incoscienti destinata a cadere nel ridicolo perché chiunque avesse voluto interpellare un qualsiasi onesto abitante di Marzabotto o, quanto meno, qualche persona reduce da quei luoghi, avrebbe appreso l’autentica versione dei fatti.

Il problema della verità, aggiungo io, è che non usa lo stesso orologio della menzogna; la menzogna è fulminea e avvelena subito i pozzi, alla verità ci vogliono anni per emergere e dire la sua definitiva.

Per Marzabotto, ad esempio, si arrivò addirittura nel 2007 per mettere una parola fine sulla strage:

Il tribunale della Spezia ha posto una parola definitiva sull’eccidio di 880 civili che si consumò nel settembre del 1944 sulle montagne bolognesi, stabilendo che non si trattò di una ‘semplice’ rappresaglia nazista. Fu una strage, premeditata, pianificata, scientificamente eseguita. Il tribunale ha depositato la sentenza dopo che a gennaio era arrivata la condanna per dieci dei 17 imputati, appartenenti alla 16/a divisione Reichfuhrer che, agli ordini del maggiore Walter Reder, attuarono tutti gli eccidi tra la Toscana e l’Emilia-Romagna durante la ritirata del terrore del 1944.


Si legge nella sentenza che:

 L’eccidio fu freddamente pianificato a tavolino, sulla base della arbitraria e ingiusta equiparazione tra civili e partigiani. Le violenze sui civili inermi iniziarono ben prima che i partigiani della Stella Rossa accennassero una pur minima resistenza. Quale ‘necessita” vi era di sterminare i vecchi, gli invalidi e i bambini più piccoli? La furia nazista non operò alcuna distinzione tra le persone. Gli ordini impartiti erano chiari: uccidere tutti e distruggere tutto.

Foto scattata da me, una delle tante foto d’epoca all’interno del museo della resistenza

Una sentenza che toglie ogni possibile velleità di revisionismo sulla strage di Marzabotto. Questo il commento dei familiari delle vittime alle motivazioni della sentenza del tribunale della Spezia: 

Non possiamo certo essere soddisfatti – ha detto il rappresentante dei familiari Valter Cardi – perché nessuna sentenza può riportare in vita i morti. Ma si fa piena luce su quegli episodi: una strage pianificata che aveva l’obiettivo di distruggere la vita su quei territori e che non fu innescata da una reazione partigiana.

Chiudo, affermando con convinzione che non mi fido affatto di coloro che oggi sostengono che il pericolo autoritario nel nostro paese è solo la solita isteria storica di qualche ben pensante, perché è la storia del nostro paese, compresi i suoi tristi epiloghi, a dimostrarlo. La storia parla con la memoria, gli irresponsabili col vento. Sono tra quelli che temono l’esito delle prossime elezioni del 25 settembre, perché noto che da una parte si usano gli stessi subdoli tatticismi propagandistici che usarono personaggi come Hitler: a livello internazionale rassicurava sulle sue intenzioni pacifiche, nei circoli ristretti e nei comizi interni, invece, inveiva ferocemente contro gli ebrei e contro tutte le minoranze. Come è accaduto (e non dimentichiamocelo), con la Meloni al convegno di Voz (un gruppo di estremisti neo-falangisti) nel quale lanciava, senza alcun pudore, veri e propri anatemi con le minoranze di LGTB e non solo. Perché dovremmo fidarci, ora che abbiamo la memoria a dirci come possono finire queste cose.

Ultima nota su Sant’Anna.

Recentemente, è morta Cesira Pardini, una delle sopravvissute della strage che all’epoca aveva 18 anni. Nella strage vennero uccise due sorelle, una delle quali fu considerata la più giovane vittima dell’eccidio. Cesira riuscì comunque a salvare due altre sorelle e un altro bambino, Paolo Lencioni. Per il suo eroismo, le venne riconosciuta la medaglia al valore civile.

Un altro pezzo di memoria se ne va, ora tocca a noi portare la fiaccola del testimone: con un urlo: non ci ingannerete, non ci accontenteremo, vigileremo!

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