Oggi, voglio raccontarvi una storia italiana di poco più di un secolo fa, alla fine del XIX secolo, ma che sembra appartenere ad un’altra era geologica. Il contesto è quello dei moti di Carrara e della Lunigiana del 1894, la storia è quella di centinaia di anarchici, arrestati senza pietà, sottoposti a tribunali militari per direttissima, molti dei quali condannati a pene pesantissime, oltre vent’anni (che sappiamo cosa significassero, fatti nelle patrie galere del tempo, in Piemonte e in Sicilia).
I FATTI
I moti di carattere insurrezionale, iniziarono il 13 gennaio 1894 a Carrara, come protesta contro la proclamazione dello stato d’assedio promulgato in Sicilia per reprimere la formazione delle associazioni spontanee di braccianti agricoli, minatori e operai, dette dei fasci siciliani (che non hanno nulla a che vedere con i fasci italiani da combattimento ed il partito fascista). Queste associazioni nacquero per fare fronte comune (e non violento) contro le ingiustizie sociali e economiche a cui erano sottoposte le classi subalterne, nei confronti dei poteri padronali e latifondisti. Molti esponenti furono arrestati dal governo presieduto da Francesco Crispi.
All’epoca (come oggi), tutta la zona intorno a Carrara e l’adiacente area apuana, era caratterizzata da una forte attività intorno all’estrazione e commercializzazione del marmo, con una conseguente aggregazione operaia molto combattiva. La frequente presenza in quest’area di anarchici come Bakunin, Cafiero, Malatesta, Gori, Galleani, Schicchi, Molin ari ed altri facilitò la diffusione dell’anarchia tra gli operai, andando a caratterizzare, ancora oggi, quest’area geografica come una di quelle a più alta intensità di presenze anarchiche.
Pensiamo all’incredibile moto di solidarietà (da cui dovremmo prendere esempio anche oggi) che dalla Sicilia era arrivato fino ai crinali delle “genti del marmo“, tra la Versilia e le Apuane, disseminate di paesi dove vivevano e vivono, ancora oggi, gli autentici anarchici d’Italia. Così, quel 13 gennaio, a Carrara, sotto l’influenza degli anarchici, fu indetto uno sciopero generale di protesta e solidarietà nei confronti dei fratelli siciliani arrestati. Lo sciopero che aveva assunto toni insurrezionali, culminò con i fatti del 16 gennaio, quando un gruppo di 400 dimostranti si scontrò con un reparto militare davanti ad una caserma di Carrara, provocando 8 morti e molti feriti tra i dimostranti. Lo stesso giorno, fu presentato, da Crispi al Re, il decreto per lo stato d’Assedio in Lunigiana, con la relazione che affermava, tra l’altro:
«Gli anarchici di Massa e Carrara, raccoltisi in bande armate, scorrazzano per quelle contrade a fini criminosi, rompendo i fili telegrafici, ostruendo le strade, attaccando insidiosamente la forza pubblica […] il moto non è politico, ma ha tendenze antisociali, propositi accennanti alla dissoluzione nazionale, a danno della proprietà, a distruzione della famiglia.» |
(Relazione al decreto di proclamazione dello stato d’assedio) |

Furono relazioni istituzionali come queste a gettare discredito sugli anarchici (che verranno tramandati nell’immaginario collettivo, da quel momento in poi, come facinorosi e terroristi) ma fu, al contempo, il pretesto propagandistico per delegittimare i socialisti e tutti i movimenti affini che, con gli anarchici, condividevano molti ideali politici e sociali.
Cominciarono le repressioni e i processi davanti ai tribunali militari. Furono arrestate 300 persone per sedizione e più di 200 semplicemente per essere anarchici. pensiamo che furono emesse 454 condanne per complessivi 2.500 anni di carcere!
LA VERA STORIA, VENNE RA STORIA VERA, E’ QUELLA RACCONTATA DA CECCARDO DI ROCCATAGLIATA CECCARDI IN “DAI PAESI DELL’ ANARCHIA”.
Fin qui, abbiamo narrati i fatti, così come riportati nei libri di storia. la verità, però, fu svelata da Ceccardo.
Sono venuto a conoscenza di questi fatti, da un profondo conoscitore delle terre di Versilia e Apuane, lettore e studioso edotto di figure letterarie come Carducci, Shelley, Ungaretti e, figura centrale di questa storia, del poeta Ceccardo Roccatagliata Ceccardi.
Un gruppo di appassionati e veraci cultori del Ceccardo, si erano riuniti, negli anni ’90, per un incontro conviviale tra pochi nostalgici amici, al celebre Gran Caffè Margherita di Viareggio(Edificio del 1902, originariamente costruito in legno). Oggi, con le sue architettura orientaleggiante e decorazioni moresche, è un simbolo della città (assieme alla Torre Matilde). In passato, era un luogo di incontro di circoli intellettuali e letterari antesignani. Gli appassionati, si erano riuniti per dibattere dei fatti, raccontati dal Ceccardo nel volumetto “Dai Paesi dell’Anarchia“, con il quale il poeta descrive degli arresti arbitrari, seguiti ai moti del 1894, e la messa sui treni degli anarchici condotti nei tribunali militari. Occorre sapere, che il Margherita di Viareggio è stato testimone di fatti che sono entrati nella nostra storia, come l’episodio del 1914, in cui scoppiarono tafferugli (c’era anche il Ceccardo), tra Realisti e Fratelli Apuani, al termine del quale Ungaretti fu arrestato.
In occasione di quell’incontro intimo, erano state stampate 99 copie del testo del Ceccardo, accompagnato dalle splendide e struggenti illustrazioni del pittore lucchese (classe 1948), Pier Luigi Puccini. Così, sono entrato in possesso di una delle 99 copie, da anni in uno scaffale pieno di libri.

Nella copia, con postfazione di Umberto Sereni , afferma tra le altre cose:
Il volumetto raccoglie gli interventi che Ceccardo scrisse a a partire ad marzo sulla rivista “Lo Svegliarino” di Carrara e su “L’Era Nuova” di Genova. Gli articoli avevano il compito di ristabilire la verità, che i giornali dell’epoca avevano volutamente falsato, fino al punto di magnificare le quasi agiate condizioni di vita di cui avrebbero goduto i lavoratori. vennero po radunati in un volumetto. Stampato a Genova, ebbe una grande diffusione e contribuì non poco a mobilitare la solidarietà intorno alla disgraziata sorte dei lavoratori apuani.
Da parte delle autorità, scrive sempre Sereni, quel libretto ebbe un trattamento di riguardo: fu più volte sequestrato; ma come accade in casi del genere tanto zelo repressivo ad altro non conduce se non ad accreditare ancor più l’oggetto dei provvedimenti. L’ opuscolo di Ceccardo uscì con il titolo “dai paesi dell’Anarachia” con lo pseudonimo di Armodio Lunense. Una coraggiosa testimonianza d’amore per la gente apuana, della quale comprende con sincera simpatia le ragioni del suo spasmo di libertà e di redenzione. Quel mito apuano che avrà in Ceccardo il più appassionato ed il più efficace elaboratore e cantore. Il mito che affidava alla gente dell’Apua, “la terra santa” dei “liberi e forti”, la missione di rigenerazione di un sistema sociale, politico e istituzionale nemico della felicità degli uomini. Toccava all’Apua realizzare quel “liberato mondo” che era nei sogni umanitari visti da Shelley sul mar Tirreno. “Un più civile mondo di sublime uguaglianza in cui “ogni uomo fosse a se stesso Re e Dio” come scrisse lo stesso Ceccardo.
Sono stato molte volte in quei luoghi straordinari, proprio per realizzare un documentario sul periodo di Shelley in Italia (1818-1822). Le cave di marmo, l’incredibile verticalità delle Apuane, che sgomitano verso l’alto, come ventagli dorsali di pietra, di mostri antidiluviani. Paesi come colonnata, dove incontri gente, spigolosa e forte come i blocchi di marmo che estrae, e capisci essere fatti di un’altra pasta di un’altra epoca, di un altro DNA. Il mito persiste, il loro indomito ideale politico, persino le loro origini, diverse da quelle degli altri toscani, che loro nemmeno si sentono.
Cito qualche passo di questi accorati e indignati articoli del Ceccardo, di cui è disponibile la versione integrale su internet:
Sulla vita delle genti del marmo, scrive:
Chi non ha veduto una cava, chi non ha osato salirci non può davvero farsene un’idea. E pensare che nelle vallate di Canal Piccinino e di Canal Bianco, esse si contano a centinaia, una dietro l’altra, una sovra l’altra. Sul diffuso grigio delle montagne arrugginite esse paiono enormi ferite candide. Cigli di rupi irte, scannellature di righe s’aggrottano sopra ed hanno un color di sangue sbiadito colà dove la ruggine manca nel bianco. E cosí via via, su su finché non si giunga al vertice supremo inaccessibile, irta punta che la nebbia circonda quasi fosse il Nume del luogo. Sul piano della cava s’ammucchiano i massi. Là lavorano gli squadratori, gli scalpellini, ma su per la parete bianca, sulle creste delle rocce, legati ad una fune, il piede su una tavola tremante, i cavatori scavano le mine. Talora su un gruppo altissimo, è necessario fare in breve una profonda mina; allora si uniscono molti pali di ferro, si costruisce una specie d’impalcatura a vari piani con rozzi pini od elci, là sopra sale qualche dozzina d’uomini ed allora comincia, lento e monotono il lavoro; ogni colpo della ferrea stanga nel calcare è accompagnato da un triste e cadenzato: Oh! Oh! Io ho ascoltato lungamente quel richiamo onde tutti i lavoranti, in un sol momento, abbiano intente le forze ad un medesimo atto. È un accordo lamentoso, che gli echi rimandano, e affievolendolo rendono qualche volta più dolente e fantastico, onde l’anima commossa pensa: dunque anche qui vivono gli uomini? Dunque, anche qui soffrono? In terra non è luogo, dunque, ove non sia dolore?
Sotto il piazzale poi delle cave scende rovinosamente il cumulo dei detriti di marmo che l’escavazione continuamente aumenta. Scende colmando insenature, sfaldandosi per i versanti dei balzi, ammucchiandosi in fondo alla vallata o contro un ciglio enorme di rocce a mezzo monte. È il ravaneto. In esso sono tracciate le vie delle lizze. Per queste vie dal piano delle cave si fanno scendere i massi già squadrati ai carri enormi tirati da bovi che li attendono a certi luoghi meno ardui, o alle stazioni della ferrovia marmifera. Enormi piuoli sono piantati per queste vie che hanno sempre il cinquanta o il sessanta per cento di discesa, e servono a fissarvi le canape della lizza – specie di slitta di legno, su cui i marmi van posti – onde scenda lentamente, senza mine. Diversi uomini, detti lizzatori, posti sul davanti, dispongono sotto il blocco in discesa, dei travicelli di legno detti parati, che ne attutiscono lo sfregamento contro la scabra via e ne agevolano il viaggio.


E sulla repressione seguita i moti della Lunigiana e Carrara:
Erano scene strazianti. Per lo più quei tristi condannati, quasi tutti giovanetti, erano fatti partire coi treni del mattino. L’alba si levava lentamente sulle Apuane, i monti delle cave dove forse i loro padri, i loro fratelli erano morti schiacciati da un masso rotolante per un ravaneto, o sotto lo scoppio orrendo di una mina, per guadagnarsi un tozzo di pane. La luce scendeva lentamente e gettava dei lividori sulle facce pallide, smarrite dei condannati, sul filo delle baionette. Qualche madre, qualche sposa li attendevano talvolta. E si slanciavano piangendo tendendo loro le braccia disperatamente, prese da un invincibile desiderio di ribaciare coloro che avevano allattato, o baciato dolcemente un giorno di nozze, figli, mariti, coloro che, come vecchi assassini, andavano a marcire le carni in una segreta.
Partivano i figli, i mariti pei lontani reclusori, ed esse ritornavano alle loro case, cui gli usci, nei tristi giorni delle perquisizioni e degli arresti erano stati sfondati dalla furia dei carabinieri e degli alpini, col calcio del fucile, o a colpi di baionetta, alle loro case dove altre donne ed altri figli piangevano con lo spettro del futuro negli occhi, lo spavento della futura fame nell’anima.
Verrà l’estate, ritorneranno l’autunno e l’inverno, ma essi, mai mai, per molti anni ed anni, forse mai più. E beate quelle madri cui è rimasto un figlio; quelle figlie cui è rimasto uno sposo a consolarle! Non son rare le madri che hanno tutti i figli e i mariti in prigione, non son rare le giovinette spose da due o tre mesi che hanno il giovinetto consorte condannato a vent’anni di galera.
Che vita! Quante esistenze infrante, quanta vitalità perduta! M’è caro di non essere stato ad ascoltare i testimoni! Dev’essere stato un vero orrore… Ebbene, sarebbe forse meglio, avrebbe ancora la coscienza in pace, non avrebbe ancor conosciuto quante infamie commette la società in cui vivrebbe, in cui viviamo. E potrebbe ancora pensare: essi avevano molti fucili, delle mitragliatrici, della polvere… della dinamite… Orrore! Essi invece non hanno ucciso nessuno, eccetto un carabiniere che li ha assaliti, non hanno bruciato neppure una capanna, devastato neppure un campo, rubato neppure un chicco di grano… Essi non avevano che qualche centinaia di fucili in due o tre mila, poca polvere, neppure una bomba di dinamite. È vero volevano fare una rivoluzione, erano stanchi di essere sfruttati, di morire per pochi centesimi al giorno – ignoti – sotto i massi e le mine delle cave, ma i più non sapevano neppure cosa fosse una rivoluzione, quanto coraggio e abnegazione ci vogliono a farla; e la prima sera della rivolta in quattrocento o cinquecento, si sono sbandati come tante pecorelle dinanzi a due carabinieri, uno già morto, uno quasi moribondo. Vergogna! Oh, non così, non così, ritorneranno la pace e l’amore in quelle regioni! Il popolo non dimentica; questo è certo; come è legge fatale che dalla rivoluzione succeda la reazione, e da questa, più grande e potente una seconda rivoluzione.
Paolo Maggioni Conte