GLI STAMBECCHI DISCENDONO DAGLI ALBERI – UNA LEZIONE DI UMILTA’

L’EPOPEA DEGLI ALBERI

un racconto di Paolo Conte

Vi racconto una storia. Una storia che mi è stata sussurrata da una delle nenie eoliche che nascono attraverso i rami delle foreste di conifere nelle giornate di brezza primaverile. La potete trovare anche all’interno del film “Il Mito e la Ragione “.

Fotografia di una statua costruita da anonimo in montagna e immaginata come il Signore delle terre. Foto di Paolo Maggioni Conte e Lorenzo Rezzonico

Tantissimo tempo fa sulla terra c’erano due divinità, figlie del vento, a contendersi la terra. Erano il Signore delle terre (di nome Keriùndui) e il Signore delle acque (di nome Kempétala). Contrariamente al fratello, il Signore delle terre si sentiva solo. Correva, svolazzava sulle terre allora desolate ma si annoiava. Un giorno decise che ne aveva abbastanza. Con la complicità delle tenebre andò da suo fratello mentre dormiva. Tagliò la sua pancia con i suoi artigli di selce e ne tirò fuori l’acqua con la spuma vitale. Corse via e la notte stessa sorvolò i suoi vasti territori di granito senza vita e li cosparse della linfa vitale sottratta al fratello. Si addormentò esausto, ma quando si svegliò vide che i pinnacoli di pietra si erano trasformati in alberi rigogliosi.

I secoli passarono e Il Signore delle terre era orgoglioso del suo gregge immobile e numeroso. Tutto sembrava andare per il meglio, non soffriva più la solitudine. Ma accadde che alla lunga furono gli alberi ad annoiarsi. Non potevano muoversi e spostarsi e si sentivano incatenati al suolo con le loro lunghe radici. Allora un giorno, uno degli alberi più antichi, tanto antico da essere stato il primo fra gli alberi, chiamò il suo padre, Signore delle terre. Voleva parlargli. Non dovette attendere neanche un istante che suo padre dalle dita di selce coprì con l’ombra del suo scuro mantello l’intera valle. Il Signore delle terre disse:

Le foreste incantate sopra il lago di Arpy. Immagine di Paolo maggioni Conte

Figlio mio, ho sentito la tua implorazione e sono corso da te, cosa tedia il tuo cuore?

Il pino rispose al padre: 

Pino solitario in alta montagna. Immagine di Paolo Maggioni Conte

Padre mio, parlo a te che ci hai generati in una notte, per nome di altri tuoi figli. Molti di noi, passati innumerevoli secoli, sono stanchi di stare fermi e scorgere lo stesso orizzonte. 

Si si padre, siamo stanchi, si siamo stanchi!

aggiunse il Coro degli alberi

Molti di noi sognano di lasciare per un po’ il gregge per andare per il mondo liberi e invecchiare conoscendo il mondo.

Padre, solo alcuni di noi lo vogliono, solo alcuni di noi lo vogliono!

Aggiunse con forza il coro

Allora Keriùndui rispose paterno ma severo:

Figli miei che novità è questa che odono le mie orecchie?

Io vi ho generato dalla mia sacra criniera, siete figli dei miei desideri! Vi ho dato la semi immortalità e vi ho messo come re sui troni delle montagne, a finché ne siate custodi e guerrieri. Contro le tempeste che infuriano di mio padre il vento, vi ho fatto dita possenti e corpi infrangibili per ancorarvi contro ogni forza e per bere l’acqua migliore. La vostra vista è la più superba dopo la mia. Mio padre il vento e mio fratello assieme, nulla possono contro le vostre possenti gambe radicate nel mondo, così tanto in fondo da scuotere orizzonte e firmamento. Vi ho dato una vita lunga e placida, così dunque mi ringraziate?”

Padre, ti saremo sempre grati, ti saremo sempre grati.

Aggiunse il Coro degli alberi

Gli alberi più audaci lo supplicarono dicendogli che solo alcuni di loro avrebbe voluto sperimentare quella nuova vita. A quel punto il padre, che li amava, non tardò a dispensare azioni contro parole.

Un vento scuro passò tra i lignei titani e una massa informe in movimento cominciò a modellare strane creature. Così il Signore delle terre trasformò i figli prediletti in stambecchi. Mentre la filiazione procedeva, Keriùndui aggiunse:

Il grande stambecco, foto di Paolo Maggioni Conte e Lorenzo Rezzonico

Andate figli miei, ora siete liberi. Ma che poca cosa sarà la vostra libertà se la vita vi sarà accorciata in pena.

La vostra vita sarà sempre in pericolo, dovrete spostarvi per elemosinare l’acqua che dal cielo mio fratello manderà. Non avrete più dita radicate nelle profondità delle mie costole.

Errerete da una montagna all’altra in cerca di cibo.

Non avrete più radici per sostenervi senza sforzi.

Avrete il tormento delle arpie del vento e sarete sferzati da mio padre e dai suoi dardi di fuoco e di cristallo.

Ma del vostro imperturbabile passato, conserverete due possenti rami sulla testa, a finché non dimentichiate mai che da alberi siete sorti e ai loro piedi tornerete. Così, ad essi porterete sempre rispetto e troverete ricovero sicuro. Non vivrete più a lungo, come il gregge degli alberi, questo è ciò che la libertà vi donerà.

Il grande pino montano, immaginato come lo scheletro di un albero a metà strada tra un albero e lo stambecco, foro di Paolo Maggioni Conte

Gli stambecchi seguirono il proprio destino. Malgrado la sofferenza e la libertà, furono saggi. Non dimenticarono mai i loro antenati, il gregge degli alberi. Ecco perché da sempre ogni anno si radunano in grandi mandrie perché come gli alberi celebrano la loro necessità di stare insieme.

MORALE

Quale potrebbe essere la morale di questa favola? Credo che sia abbastanza semplice scorgere la metafora dell’uomo che, a differenza degli stambecchi, ha rinnegato la madre terra e ha usato il libero arbitrio con arroganza e disubbidienza. Gli stambecchi invece, rappresentano la virtù e l’umiltà nel ricordare da dove si viene. Malgrado abbiano spezzato il vincolo che li legava alla terra attraverso le radici e abbiamo ricevuto il dono del libero arbitrio, sono rimasti fedeli alle loro origini e ai loro antenati, hanno conservato i palchi in ricordo dei rami che ricoprivano il loro corpo quando erano alberi. Sono rimasti in armonia con la natura, accettando le pene e la morte e radunandosi ogni anno sui pascoli o ai piedi dei loro antenati gli alberi. Potremmo riflettere, raccontare questa favola ai bambini per invogliarli, da grandi, a ricostruire quel vincolo con la natura che abbiamo spezzato da troppo tempo.

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