Questa è una storia vera, anche se sembrerebbe uscita dai racconti di Crow Killer: The saga of Liver-Eating Johnson (L’uccisore dei Corvi: la saga di “Mangiafegato” Johnson) di Raymond Thorp e Robert Bunker, che ispirarono il film “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo”, o da “Il richiamo della foresta” di Jack London. Questo anche grazie all’incredibile potenza narrativa di Šalamov. Mi è capitato raramente di imbattermi in storie raccontate con tale maestria, anche quando la loro brutale secchezza, lascerebbe poco spazio a l’immaginazione.
Nel libro di Varlam Šalamov, sul Gulag di Kolyma, la cagna Tamara rientra sicuramente tra gli animali dimenticati della storia, come è nello spirito di questo blog. Visse per qualche tempo assieme ai suoi compagni di sventura, gli uomini, nel Gulag alla Kolyma, portando anche un pò di gioia e di speranza. Era quasi diventata la mascotte del campo. Era una cagna fiera, indomita e furba, e nel tentativo di difendere i suoi compagni, da quella che sembrò lei una minaccia – legata probabilmente a dei suoi ricordi traumatici – fu freddata con un colpo di mitra. Vittima anch’essa, come gli uomini, di un gelo umano più forte di quello della taïga, che uccide sul finire di ogni episodio del libro, la flebile speranza. Nel suo piccolo anche Tamara è una vittima della banalità del male:
LA CAGNA TAMARA di Varlam Šalamov
Era Moisej Moisecevič Kuznecov, il fabbro, ad aver portato la cagna Tamara dalla Taïga. Per determinare che il suo era certamente un lavoro di famiglia bastava considerare il cognome che portava (Kuznec infatti vuol dire fabbro). Era orfano, e lo si capiva dal nome e dal patronimico, che rivelava l’uso, tipico presso gli ebrei, di dare immancabilmente al figlio il nome del padre, se questo fosse morto prima della sua nascita.
Moisej Moiseevič aveva imparato a battere il ferro da piccolo, quando viveva dallo zio, che come il padre era fabbro. Sua moglie, che era molto più giovane di lui e che lavorava in un ristorante di Minsk come cameriera, nel ’37 aveva compilato una denuncia ai danni del marito, sotto consiglio della sua migliore amica, anche lei impiegata nel ristorante. A quei tempi era il metodo migliore per far sparire il proprio sposo; funzionava certamente molto meglio di un intruglio magico o di una maledizione, ed era persino più sicuro del vetriolo. Difatti Moisej Moiseevič era scomparso all’improvviso e senza lasciare traccia.
Kuznecov non era un fabbro come gli altri, era un maestro abilissimo, un artista della forgiatura, quasi un poeta. Apparteneva a quella classe di artigiani talmente abili da essere in grado di forgiare una rosa. Si era addirittura forgiato da solo, e con eleganza, gli stessi strumenti che usava quotidianamente per lavorare, tenaglie, scalpelli, martelli, mazzuoli – cosa che segnalava in lui non soltanto l’amore che provava per il proprio lavoro, ma anche l’assoluta comprensione del significato profondo dell’essere fabbri.
In ogni oggetto che forgiava, che fosse un ferro di cavallo o un chiodo, si riconosceva la sua profonda maestria. Non si trattava solo di questioni di simmetria, ma di qualcosa di più essenziale, di molto più profondo. Faceva sempre fatica a staccarsi da un lavoro appena terminato, provava continuamente la sensazione che gli mancasse un ultimo colpo, un’ultima martellata che l’avrebbe migliorato e reso ancora più perfetto per l’uso.
Nel lavoro che ci spettava, la prospezione geologica, non c’era molto da fare per un fabbro; tuttavia i capi avevano per Kuznecov una grande considerazione, tanto da perdonarlo anche quando, di tanto in tanto, si prendeva il lusso di combinare qualche scherzo.
Una volta era persino riuscito a convincerli che usare il burro al posto dell’acqua avrebbe migliorato di molto la resistenza delle trivelle, così che i capi ne avevano fatto arrivare un po’ alla fucina, seppure in quantità minima. Kuznecov scioglieva una piccola dose di burro nell’acqua e le punte delle trivelle d’acciaio ne guadagnavano in lucentezza. Il burro che avanzava lo divideva con il martellatore che lavorava con lui, e anche quando il piccolo trucchetto venne rivelato ai capi, essi lasciarono correre, senza alcuna punizione. In seguito Kuznecov continuò a sostenere l’ottima influenza del burro sulla tempra delle trivelle, riuscendo persino a ottenere dal capo alcuni panetti ammuffiti dimenticati chissà quando nel deposito, e dai quali, fondendoli, aveva ricavato nuovamente del burro amarognolo ma utilizzabile. Era un uomo buono e pacato, che pensava soltanto al bene di tutti.
Il capo era un profondo conoscitore della vita. Come Licurgo, aveva organizzato il suo regno della taiga in modo che ci fossero sempre due infermieri, due fabbri, due caporali, due addetti alla cucina e due contabili. Mentre un infermiere si dava da fare come operaio, l’altro curava i malati, sorvegliato dal primo in modo che non potesse commettere nulla di vietato. Se ad esempio l’infermiere veniva colto in flagrante mentre usava indebitamente dei «narcotici- come codeina o caffeina – veniva sanzionato e rispedito ai lavori, gli obtie raboty, e a rimpiazzarlo veniva messo il suo omologo che, dopo aver posto una firma nel quaderno dell’inventario, lo sostituiva nell’infermeria.
Il capo era convinto che, nel caso di lavori specialistici, le riserve avrebbero assicurato sia il ricambio nel momento del bisogno, sia il controllo disciplinare. La disciplina infatti sarebbe stata messa in discussione nel momento in cui qualcuno dei lavoratori specializzati, anche uno solo, si fosse ritenuto unico e insostituibile.
In ogni caso, i contabili, gli infermieri e i caporali : troppe storie per scambiarsi di posto, e non rifiutavano mai un bicchierino, anche se glielo avesse offerto un provocatore.
Moisej Moiseevič era talmente impeccabile e inattaccabile, e il suo lavoro di una qualità talmente alta, che il suo sostituto, scelto dal capo come suo contrappeso, non riuscì mai a utilizzare un martello
Fu proprio lui, Moisej Moiseevič a trovare, lungo un sentiero della taiga, un esemplare di cane jakuto che aveva tutta l’aria del lupo. Era una femmina e aveva sul pelo bianco del petto una striscia consumata, sintomo di un passato da cane da tiro. Non c’era alcun villaggio o accampamento di nomadi jakuti nelle vicinanze, così, quando la cagna gli si mise d’improvviso davanti, Kuznecov si prese un colpo e, pensando di trovarsi alle prese con un lupo, tornò in fretta sui propri passi, lasciandosi dietro
il rumore degli scarponi nel fango: c’era altra gente che arrivava.
Inaspettatamente la cagna si appiattì con la pancia nel fango e prese ad avvicinarsi con circospezione agli uomini, muovendo leggermente la coda. Gli diedero da mangiare e la riempirono di carezze e di pacche su fianchi rinsecchiti dalla fame. Da quel giorno la cagna ci fece compagnia, e ben presto capimmo il motivo che l’aveva spinta a non cercare i suoi padroni nella taiga. Era incinta, e il parto era prossimo. Appena arrivata al campo aveva iniziato in fretta a scavare una buca al di sotto della tenda, quasi senza badare a chi voleva vederla. Tutti e cinquanta gli abitanti dell’accampamento, infatti, nessuno escluso, spinti da una irrefrenabile carenza di tenerezza, volevano riempirla di carezze, li sciarle il pelo e comunicare con lei.
Anche il responsabile del lavoro era venuto a dare il benvenuto al nostro nuovo ospite, uscendo dalla tenda e suonando la sua inseparabile chitarra. Era un geologo di più o meno trent’anni di nome Kasaev, che aveva appena raggiunto i dieci anni di soggiorno nell’Estremo Nord.
Il miglior nome da dargli è “Combattente”», sentenziò. Ề una cagna», gli fece eco sogghignando Slavka Ganuškin, ” Ah, è una cagna? Allora si chiamerà Tamara», disse il geologo prima di allontanarsi.
La cagna scodinzolò leggermente e lo seguì con una specie di sorriso. Tamara era una cagna furba e aveva capito in breve tempo chi fossero le persone con le quali sarebbe stato utile avere un buon rapporto. Aveva capito perfettamente l’importanza di personaggi come Kasaev e il caporale Vasilenko nell’economia del campo, come aveva capito che era fondamentale farsi amico il cuoco. Passò la notte distesa accanto alla guardia. Non ci volle tanto tempo per capire che Tamara non aveva bisogno di rubare il cibo né dalle tende né tanto meno in cucina; era evidente che mangiava soltanto il cibo che le veniva dato.
Gli uomini che popolavano il campo, tutta gente che aveva vissuto storie assurde, trovandosi quasi sempre nel bel mezzo di problemi di ogni sorta, fu particolarmente intenerita dalla sua statura morale. Tra i pezzi di carne, il pane al burro e la carne in scatola che gli si mettevano di fronte, Tamara, dopo aver annusato, sceglieva cosa prendere, e la sua scelta cadeva sempre sulla stessa cosa: un trancio di salmone siberiano sotto sale, cibo che probabilmente le risultava più familiare e innocuo, oltre che gustoso, naturalmente.
Poco tempo dopo Tamara partorì e nella buca che aveva scavato sotto la tenda comparvero sei minuscoli cuccioli. Preparammo una cuccia più accogliente e ve li trasferimmo. Per un bel pezzo Tamara girò inquieta e implorante per il campo, muovendo la coda. Poi, non appena comprese che i suoi cuccioli non correvano pericoli, si tranquillizzò.
Proprio in quel periodo, i lavori di prospezione dovettero essere trasferiti di circa tre chilometri sul monte. Il nuovo accampamento si trovava così a circa sette chilometri dalla base, dove c’e tano il magazzino, la cucina, e i capi. Anche la cuccia con i piccoli era stata trasferita nel nuovo accampamento e Tamara, per procurare da mangiare ai suoi cuccioli, si recava due o tre volte al giorno alle cucine, ritornando con qualche osso stretto in bocca.
Anche senza gli sforni di Tamara qualcuno avrebbe portato da mangiare ai suoi piccoli, ma di questo la cagna non poteva essere mai sicura.
In inverno nessuno può pensare a un evasione, eppure in giro si diceva che cinque prigionieri fossero riusciti a scappare nella taiga. Per questo, un giorno, un reparto di operativniki su sci che setacciava la taiga in cerca degli evasi, fu ospitato nel nostro accampamento. Al reparto su sci non venne assegnata una delle tende del campo, quelle destinate a noi, ma bensi l’unica costruzione in legno dell’intero accampamento, i bagni. Kasaev, il responsabile spiegò subito che era inutile protestare, la missione del reparto di sciatori era troppo importante.
Tutti coloro che abitavano nel campo dimostrarono una buona dose di indifferenza e il solito asservimento verso quegli ospiti sgraditi. Solo una creatura mantenne un atteggiamento ostico verso di loro.
In silenzio, con il pelo irto, gli occhi iniettati di sangue e senza alcuna paura, Tamara si lanciò su una delle guardie e gli diede un morso profondo sullo stivale. Non fu facile trattenerla o scacciarla. Nazarov, che era alla guida del reparto di sciatorie di cui eravamo venuti a conoscenza di alcune storie, aveva quasi messo le mani sul mitra per sparare alla cagna, ma Kasaev gli trattenne il braccio e lo spinse con forza nella costruzione di legno dei bagni. Semen Parmenov, il carpentiere, propose di mettere a Tamara una museruola di lacci e legarla a un albero, e così fu fatto. In fin dei conti, gli sciatori se ne sarebbero andati di li a pochi giorni.
Come tutti i cani della sua razza, anche Tamara non sapeva abbaiare. Ma non assomigliava più alla creatura pacifica e servizievole con cui avevamo condiviso l’inverno. Ringhiava, cercando con le vecchie zanne di rompere la corda che la legava. Non eravamo abituati a vederla in quello stato, colma d’odio, eppure dietro a tutto quel rancore intravedevamo qualche traccia della sua vita precedente. Era chiaro ed evidente a chiunque che quella non poteva essere la prima volta che si trovava di fronte a dei soldati. Qual era l’entità della tragedia che aveva impresso il suo marchio nella memoria della cagna? Era forse in quel terribile passato la chiave per capire il motivo della sua apparizione nei pressi del campo?
Probabilmente Nazarov, il comandante di quel reparto, se la sua memoria valeva per i cani come per gli uomini, poteva dirci qualcosa in proposito.
Qualche giorno dopo, tre soldati del reparto degli sciatori se ne andarono. Il comandante Nazarov, il suo attendente e Kasaev, il nostro responsabile, sarebbero partiti il giorno successivo. Durante la notte si ubriacarono, all’alba smaltirono la sbornia trangugiando un’altra bottiglia e partirono.
Quando Nazarov sentì Tamara ringhiare tornò indietro, prese il mitra dalla spalla e sparò una raffica sulla cagna. Tamara si contorse, poi si immobilizzò, mentre dalle tende iniziavano ad accorrere tutti, svegliati dallo sparo. Nelle mani avevano asce e picconi. Kasaev si mise in mezzo, tra Nazarov e gli operai, mentre il comandante del reparto di sciatori fuggiva nei boschi.
A volte i sogni si realizzano, ed era talmente elevato il rancore che i cinquanta uomini del campo provavano nei confronti di quel caporione che forse si sarebbe trasformato in una furia e l’avrebbe raggiunto.
Intanto Nazarov, insieme al suo aiutante, era scappato sugli sci. Il migliore percorso da seguire in inverno per raggiungere la strada carrozzabile, che era a poco meno di venti chilometri dal campo, era il letto del fiume ghiacciato, ma i due scelsero di passare per un valico della montagna. Nazarov aveva il timore di poter essere inseguito, il valico era la via più corta e lui era un ottimo sciatore. Arrivarono in cima al valico che era già scuro da un pezzo, le gole erano immerse nella notte e solamente le vette dei monti erano rischiarate. Nazarov intraprese la discesa percorrendola in diagonale, ma la foresta s’infittiva sempre più e, quando capì che non poteva continuare, non gli era più possibile fermare la corsa degli sci, che lo sospinsero sempre più veloce verso valle, fino a quando sulla loro strada non incontrarono un tronco spezzato di un larice, reso affilato dal tempo e nascosto sotto la coltre di neve.
Nell’impatto il corpo di Nazarov venne trapassato da una parte all’altra dal grosso ceppo, strappandogli il cappotto sulla schiena. Il suo aiutante, che ormai si trovava molto più a valle di lui, non poté far altro che accelerare la sua corsa e arrivare alla strada carrozzabile, dando l’allarme solo il giorno dopo.
II corpo di Nazarov fu ritrovato due giorni dopo trapassato da parte a parte dal larice, congelato nel movimento della corsa come una di quelle sagome che affollano le rappresentazioni delle battaglie storiche.
Tamara fu scuoiata e la sua pelle venne esposta su una delle pareti della stalla dei cavalli, tesa in maniera approssimativa con dei chiodi. Il tempo la seccò e la ridusse a un minuscolo fazzoletto tanto che fu impossibile credere che un tempo era stata la pelle di un poderoso cane da slitta jakuto. Non era passato troppo tempo da quei giorni quando al campo arrivò una guardia forestale, e compilò, falsificando le date, le autorizzazioni per tagliare alberi che erano già stati tagliati da tempo.
A suo tempo nessuno aveva pensato a quanto dovessero essere alti i ceppi, quindi ora erano fuori norma e il lavoro era da rifare. Era un lavoro tranquillo e alla guardia fu consentito di farsi un giro allo spaccio, gli furono dati dei soldi e qualcosa da bere. Prima di partire volle che gli regalassimo la pelle di cane che era esposta nella stalla dei cavalli, voleva farci delle sobačiny, dei guanti di cane con il pelo all’esterno, tipici del Nord. Dei fori di proiettile che bucavano la pelle non gli importava nulla.