ALBERT CAMUS

La peste di Camus alla luce del moderno virus

Vi sono libri che hanno il dono della profezia. Ma ciò che li fa veramente grandi è in realtà il fatto che la profezia, non rientra affatto nelle loro intenzioni. Anzi, non passa nemmeno per la mente di chi li compone, la loro premura è tutt’altra. E’ quella di iscrivere nel libro delle logiche universali, fatti e sentimenti che passano per essere brutalmente locali.

Uno di questi libri è “La Peste” di Albert Camus. Camus si concentra sulla miseria umana, l’impotenza di fronte a forze incontrollabili, la solitudine e la precarietà dell’esistenza. Descrive le cronache di di una peste bubbonica che costringe la città di Orano (Algeria), dove l’autore è cresciuto, alla quarantena totale. Ci sono molte interpretazioni de La Peste. Dato il carattere profondamente simbolico della peste, narrata nel romanzo, si sono formulate numerose interpretazioni, tutte teoricamente valide per la volatilità e soggettività dei concetti allegorici. Indubbiamente, visto che il testo fu pubblicato nel 1947 si potrebbe stabilire un certo nesso allegorico tra il nazi-fascimo appena sconfitto, che ha avvolto sotto la sua ombra nera tutta l’Europa per un ventennio, e la peste nera di Boccaccesca memoria. Il nero della peste, codificato come nero nella memoria collettiva per le terribili manifestazioni cutanee di quella bubbonica (bubboni di colore scuro appunto). I ratti poi, identificati nell’immaginario collettivo come una presenza furtiva, tenebrosa e (o)scura, assimilabili alle forze dello sterminio nazista, vestite di nero e portanti come simbolo il teschio. Pensiamo alle SS, ma soprattutto alle Einsatzgruppen (le forze speciali istituite da Reinhard Heydrich ), che come ratti dilagarono dai Monti Sudeti all’Ucraina portando morte durante le campagne per il c.d. “spazio vitale” a est (termine mutuato al  lebensraum biogeografico di Friedrich Ratzel dall’ideologia nazista).

Più in generale, La Peste (il racconto) può essere visto come la metafora immediata del male, che si insinua nella società, distruggendola o il male interiore che alberga nell’uomo.

Poi c’è anche una chiave più profondamente introspettiva, intima e personale. Albert Camus si ammalò giovanissimo di tubercolosi (all’epoca ancora incurabile) e secondo alcuni questo offuscò la sua visione della vita e del futuro, in un’epoca già resa fragile dalle ideologie della morte e dall’ssurdità e inspiegabilità del male.


Immagine del Porto di Orano Autore Faycal.09, fonte Wikimedia Commons. Camus nel romanzo descrive insistentemente ORANO come una città da cui non si vede il mare, per la sua particolare dislocazione morfologica.

Quello che cercherò di fare in quest’articolo è di dare la mia personale interpretazione del libro. Ciascuno, naturalmente, è invitato a cercare la propria, magari completamente diversa dalla mia.

Il romanzo, in forma di diario, narra delle vicissitudini immaginarie, avvenute in un non precisato periodo degli anni’40 per rafforzare la parvenza storica del racconto, durante un tragico ed improvviso evento (la pestilenza), destinato a sconvolgere il presente della città di Orano in Algeria. Non dimentichiamo che Camus era nato in Algeria da una famiglia di piedi neri (in francese pieds-noirs), cioè i coloni francesi in Algeria.

Questo sconvolgimento pandemico, avviene su un piano di perenne alternanza della ragione rispetto alla politica, di quest’ultima rispetto alla società, fino ad arrivare (pensiamo pure alla metafora moderna di un drone che scende piano piano sulle vite delle singole persone) alle parti più elementari e definitivamente incomunicabili della società, cioè i singoli individui.

Questa solitudine degli individui, che sembrano afflitti (ed è forse proprio ciò che ci vuole rendere l’autore) più dal morbo dei propri tarli esistenziali che da quello della peste, viene disseppellita dall’autore con precisione chirurgica, in un macabro ma compassionevole rituale della riesumazione. Il trauma provocato da ciò che pensiamo di essere e quello che scopriamo di non essere, attraverso la fallace esistenza dei personaggi, spinge il lettore famelicamente verso la fine, come la peste, in cerca di una soluzione, di un appiglio che controbilanci questa sconcertante verità.

Il lettore attua allora, inconsapevolmente, l’autopsia chirurgica opposta a quella che avviene nel libro. Una ricerca ossessiva di qualsiasi segno di conferma, di rassicurazione. Ogni tanto, questa ricerca viene soddisfatta, ma si tratta spesso di un’illusione destinata a rafforzare il senso di crescente e pervasivo smarrimento.

Troviamo il Dottor Rieux – che scopriremo, ma solo alla fine, essere proprio il narratore incognito – ossessionato anch’egli, ma dal ticchettio della peste che avanza, e dalle sue implicazioni amministrative e sanitarie, di cui è e si sente responsabile. In questa sorta di paradossale psicosi tecnocratica, il Dottor Rieux, dialoga e ascolta gli altri come se si trattasse di un brusio indistinto suscettibili di distrarlo dai propri compiti supremi. Egli sembra piuttosto freddo, ma è in realtà dominato dall’impotenza e dal diktat di decisioni contingenti che sono sempre troppo lente rispetto al morbo.

Troviamo poi personaggi come Grand, paradigma, forse un po’ caricaturale, del mediocre burocrate che cerca nella crisi pestilenziale un impossibile riscatto di se stesso. Forse lui potrebbe essere l’allegoria della vana speranza. E’ fermo alle prime pagine della scrittura di un libro, come fosse il traghetto in naufragio verso il suo improbabile avvenire. Si capisce subito, che non è ciò che c’è scritto sopra quei pochi fogli sparpagliati sul suo tavolo il nocciolo della questione , ma i fogli stessi, che non sono altro che la materializzazione di tutte le tragiche inconsistenze dei Signor nessuno e della mancanza di controllo figurata a tutta la città.

C’è il parroco gesuita Paneloux che, nelle prediche, sembra inizialmente preoccupato più dalla forma estetica del suo discorso che dai concreti risultati sul suo gregge. Troverà il suo riscatto da liturgie domenicali ormai consunte attraverso la morte di peste, tra atroci agonie, di un bambino.

La morte di quel bambino per peste, analizzata da Camus, fin nell’irrigidimento delle sue falange tra le grinze delle lenzuola, diviene nel libro lo spartiacque di tutte le metamorfosi individuali, che si travasano gradualmente nella presa di coscienza collettiva.

C’è il giornalista Rambert, che insegue il miraggio di uscire dalla città per raggiungere la sua donna e poi ci ripensa, mettendosi al servizio di Rieux e dell’impari lotta contro la malattia.

Alla fine, rispetto a quello che stiamo vivendo oggi con il coronavirus troveremo, nel romanzo di Camus, delle inquietanti convergenze con quello che sta succedendo nelle nostre città a livello sanitario e amministrativo. Ma sarebbe un grosso errore e fin troppo facile ridurlo a questo. Quello che viene chiesto al lettore, e l’autore lo sa, è quello di uscire dalla pura rappresentazione didascalica degli eventi e dei personaggi, per entrare, dopo una faticosa opera di decostruzione, nelle sabbie mobili di una complessa simbologia. L’anamnesi semi permanente e l’autopsia di una pestilenza, sono solo strumentali alla scansione della psicologia comportamentale dell’uomo, dominata da forze superiori, naturali. Questo a mio avviso, è molto più drammatico e lugubre della pestilenza stessa.

Profetica è (più che l’intuizione storica, molto forzosa, visto che che le pestilenze si ripetono almeno una volta al secolo) la modalità in cui Camus scandaglia l’assurdità delle reazioni e dei comportamenti umani, che si ripetono con contundente reiterazione, impenitenti e scevri da qualsiasi lezione della storia (su questo potremmo stabilire dei bei parallelismi con il comportamento sociale durante Covid-19). Non mancano gli slanci di altruismo. Altruismo che viene, tuttavia, abbassato al rango di gesto avventato e inconsulto – non maturo – della circostanza, distinguendolo dall’eroismo tipico dei grandi romanzi della storia.

l romanzo – fatta la scoperta alla fine che il Dottor Rieux non è altro che il narratore – si conclude con un connubio perverso e inscindibile per tutte le generazioni del mondo, fatto di amore e precarietà. La peste è passata, la folla si inebria di vita, ma il monito non cessa il suo brusio sugli uomini. Sul finire dice,

Per qualche tempo almeno, sarebbero stati felici. Sapevano ora che se c’è una cosa che si possa desiderare sempre e ottenere solo qualche volta, è la tenerezza umana.

E poi finisce,

Sapeva che quella folla in festa ignorasse, e che lo si può leggere nei libri, che il bacillo della peste non muore ne mai scompare, che può rimanere per decine d’anni addormentato nei mobili e nel bucato, che attende pazientemente nelle camere, le cantine, le valigie, i fazzoletti e le cartacce, e che, forse, il giorno verrà in cui, per la disgrazia e l’insegnamento degli uomini, la peste risveglierebbe i suoi ratti per mandarli a morire in una città felice.

Al di là delle analogie ,persino sconcertanti, con il tragico vissuto sotto Covid-19, per me, il libro rimane una monumentale opera di scandaglio psicologico ed emotivo dell’uomo.

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