Il titolo non inganni il lettore. Non è il solito articolo a sfondo negazionista o riduzionista, per usare due termini tanto in voga di questi tempi. E’ una riflessione su come questo virus abbia cambiato lil nostro vivere su aspetti sociali che spesso ci sfuggono, presi come siamo dall’ansia di sopravvivere alla giornata a questa pandemia. L e mascherine. Erano l’oggetto di un una ricerca ossessiva provocata da penuria, durante il primo confinamento. Sono ora una specie di nuovo simbolo di sovrabbondanza tecnica e di spreco. In questa fase, la mascherina, sta ultimando la sua metamorfosi da bene investito di valore utilitaristico (proteggere se e gli altri da un potenziale contagio) a oggetto rivestito di valore esoterico, ossia accessorio di moda, con le sue espressioni identitarie e di culto. Lo dimostra il fatto che dalle mascherine chirurgiche, azzurre e asettiche , si è passati alla pletora di modelli di tessuto con i più svariati motivi e scritte. Questo sta avvenendo soprattutto in occidente. Nel sud est asiatico ad esempio, dove l’uso della mascherina a scopi profilattici avviene in maniera diffusa dall’inizio degli anni 2000 (Sars & Company e inquinamento endemico delle metropoli), le mascherine rimangono per lo più del tipo chirurgico, perché ogni tendenza individualistica viene scambiata per esuberanza e repressa in qualche modo dalle convenzioni sociali improntate al collettivismo. Certo, anche in occidente permane un uso ancorato al sobrio stile chirurgico e non è detto che la pandemia (e lo speriamo) duri abbastanza da favorire il mutamento definitivo di costume, ma il processo è comunque avvenuto, e questo è evidente a tutti. Basta osservare la moltiplicazione di bancarelle e negozi che vendono mascherine personalizzate come fossero oggetti di sartoria.
Perché accade? Una delle risposte potrebbe trovarsi nel mutismo espressivo che queste mascherine hanno imposto ai nostri volti. Siamo diventati come le pedine di retroguardia di una scacchiera, prive cioè di caratteristiche somatiche. La mascherina ambisce ad essere, per una tendenza innata dell’uomo a trasformare l’oggetto in simbolo, la propaggine posticcia e statica del nostro muso, ormai reso cieco e sordo ad ogni muscolo facciale di espressione, spogliato della sua alternanza dinamica. E’ pazzesco. Pensiamoci bene. Per quanto ci sforziamo di trasmettere le nostre emozioni, quando siamo sulla ribalta sociale, non ci riusciamo del tutto, per via di questo arnese di costipazione espressiva e respiratoria. Incrociamo decine di persone senza pervenire a trasmettere e ricevere, da alcuna di queste, il nostro e il loro stato d’animo, l’emozione, i sentimenti. Che siano, disapprovazione, rabbia, contentezza o delusione. L’unica parte ancora visibile, gli occhi, per quanto ci sforziamo di far loro trasmettere qualcosa, possono esserci di qualche aiuto solo in forma rudimentale, perché la loro manifestazione espressiva è il risultato combinato e interdipendente delle tra aree facciali (fronte, occhi e bocca), con le loro sfumature espressive (le centinaia di muscoli facciali), diffuse sul volto in maniera capillare, coordinata, ma in un rapporto che ci rende sempre unici rispetto agli altri. Se si interrompe il complesso rapporto tra una di queste tre parti, si infrange l’intero flusso.
Si realizza il paradosso di rendere in parte ciechi, ad ogni espressione, gli occhi della parte esprimente e sordi quelli della parte ricevente. Un esempio? Se incontriamo una persona gradevole , perché gentile ed educata o perché ci attrae, e vogliamo manifestare il nostro gradimento, ci è possibile fargli pervenire il nostro messaggio solo in maniere azzoppata. Strizziamo gli occhi, magari in segno educazione o ammiccamento, ma il messaggio rimane soffocato letteralmente nella mascherina, perché le espressioni muscolari degli occhi non sono sufficienti a completarlo. Non vi è speranza che arrivi al destinatario. D’altro canto lui stesso non è in grado di farci pervenire alcuna reazione di tipo complesso. E siccome in genere, la comunicazione inespressa, la più complessa appunto, precede di solito quella verbale o almeno la possibilità che essa si realizzi, si innesca un corto circuito mediatico, la cui reale portata sarà da analizzare seriamente. La mascherina non è un oggetto nuovo, ma lo è il suo travalicamento repentino dall’ambiente sanitario a quello civile. La mascherina tenta dii compiere il salto epocale, se non altro per lei, di divenire il surrogato posticcio della nostra personalità, sintetizzata però negli schemi statici e semplificati della maschera teatrale.
La mascherina può così trasformarsi in simulacro facciale ,attraverso l’uso di simboli rudimentali come emoticons e la semiologia primitiva di colori e motivi, senza mai pervenire al completamento. Un bel paradosso. Ammesso che l’uso della mascherina sia solo temporaneo (ed è quello che ci ripetiamo come un mantra) potremmo, nel frattempo, giungere ad una sorta di analfabetismo di quella comunicazione inespressa, che è una delle caratteristiche di specie dell’ Homo Sapiens. E potrebbe verificarsi (ma qui si entra nell’iperbole) uno choc culturale nel momento in cui la toglieremo, incapaci (ottimisticamente forse solo disabituati) di utilizzare l’ intricata rete sotterranea di comunicazione non verbale. In quest’ultima, che è volutamente un’ipotesi fantascientifica, potremmo ritrovarci ricchi del nostro tradizionale vocabolario verbale, ma privi di ciò che ci distingue dagli automi. Nella realtà, la comunicazione inespressa è iscritta nei geni e, a meno che non venga repressa con la coercizione, cosa che per altro è accaduto veramente nella storia, dovrebbe poter riemergere con una certa naturalezza. Questa iperbole vuole solo dimostrare quanto, una semplice mascherina, possa portare con sé implicazioni sociali e psicologiche impreviste.

Paolo Maggioni Conte