A GHOST STORY STORIA DI UN FANTASMA

A ghost story Storia di un fantasma:

è un film che convince, con molto silenzio.

La regia di David Lowery ci introduce in una prospettiva ultraterrena ORIGINALE. Credo che si possano contare le frasi dei dialoghi contenute in questo film, il resto è fatto di silenzi che ti assorbono e magnetizzano fino all’immedesimazione.

E’ incredibile come il regista sia riuscito senza quasi l’uso della parola ad esprimere tutto quel che si poteva, del limbo vissuto dalla prospettiva di un fantasma. Questo ti fa dire che, nell’immensa cacofonia iper-cinetica dei film moderni , c’è qualcuno in grado di parlare con il suo silenzio: guardate che si può raccontare tutto senza fare tanto rumore. Ripeto, di questi tempi, vedere un racconto che non ti costringe a muovere gli occhi a scatti irregolari, a rincorrere freneticamente l’intreccio, e magari ad abbassare a fasi alterne il volume per l’endemica e massiva invasione di sound effects, non è cosa da poco.

La scelta della musica sottolinea semplicemente quello che le parole vorrebbero dire e che la mente si è già abituata a pensare, silenzio, precarietà, eternità, solitudine, distacco e abbandono. Tutte emergono, infrangibili, dalle finitezza della vita reale.

All’inizio non nascondo che ho provato un certo fastidio di fronte allo stile pellicola 4:3 con immagini fisse fino all’ipotesi di blocco. Poi, invece, la narrazione trova subito la sua giustificazione. Il fantasma è quello di un ragazzo, l’attore Casey Affleck, deceduto in un incidente, lascia sola la sua ragazza, la bella Rooney Mara. La ragazza si ritrova sola nella casetta di legno vicino a Dallas. Non sa che nel frattempo il fantasma del suo amato è tornato nella casa per vegliare.

Un fantasma alla vecchia maniera.

La cosa curiosa è la scelta di vestire il fantasma – secondo l’immaginario collettivo più radicato nella tradizione – con il lenzuolo bianco e due fori per gli occhi – questi ultimi sempre vivi nell’immaginario infantile. Scelta coraggiosa in un’epoca in cui ormai i fantasmi sono solo repliche spettrali di tutte le smorfie e caricature umane.

Qui non c’è traccia di espressione, eppure si intuiscono nella forma più arcana dell’introspezione. Ci si arrende a presunti stati d’animo rudimentali, che non necessitano l’uso prolisso o superfluo di pensieri fuori campo o interventi dialoganti.

Si patisce con lui l’incomunicabilità con la sua amata, il trascorrere di interi decenni di nuovi inquilini che vanno e vengono, anche spaventati da qualche sua manifestazione di contrarietà.

Passato, presente e futuro si fondono.

Si assiste con lui, alla demolizione della sua casa, al sorgere al posto suo di una palazzo e poi una città – evidentemente molto in là nel futuro – e poi il suo ritorno al passato pionieristico ottocentesco, quando un gruppo di coloni viene attaccato e ucciso dagli indiani, in quello stesso e preciso luogo, prima che la stessa casa fosse costruita. Poi c’è l’amata, che ripete in una sorta di bolla temporale di universo parallelo, la sua vita in quella casa con lui, con esiti diversi, per poi uscire nuovamente di scena generando una replica del fantasma.

Il passato e il futuro si mescolano aumentando lo stato della catarsi dello spettatore, che si abitua a superare lo spazio e il tempo e a vedere le vicissitudini umane come precarie ed effimere . Lui è sempre lì, è come il gatto che, affezionato alla sua abitazione, non se ne va più, anche quando muoiono i padroni.

Poi c’è un gesto che ripete ossessivamente dal giorno in cui, l’amata, aveva ridipinto la casa. Il fantasma si accovaccia ogni tanto lungo un stipite di legno per grattare la vernice. Lo fa ad intervalli regolari come a legare con filo sottile le parti altrimenti senza appigli della narrazione. Perché lo faccia lascio che ognuno tiri le proprie conclusioni. E non dirò neppure come finisce, per chi non l’avesse ancora visto.

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