Domenica 8 marzo 2020. Una data che ricorderò e aggiungerò alla liste delle mie piccole cronache. Nel mondo c’è l’emergenza di un nuovo coronavirus. E’ stato denominato CoVID-19, che sembra il nome di un qualche nuovo tipo di missile balistico ma è in realtà un acronimo inglese di Corona Virus Desease 2019. L’Italia e in particolare la Lombardia, è stata la regione del mondo più colpita dopo Cina e Corea e il contagio sembra al momento diffondersi in maniera esponenziale in tutto il paese e all’estero. Mi trovavo in Toscana da tre giorni, per dei lavori di manutenzione alla mia piccola residenza estiva della Versilia, a Fiumetto (Marina di Pietrasanta).
Sabato 7 marzo la prima fuga di notizie circa la messa in “quarantena” dell’intero territorio lombardo. Il decreto, ancora in forma di bozza, viene diffuso in tarda serata dalle testate principali. I morti e i positivi aumentano. Primi casi di panico con gente che lasciava precipitosamente la Lombardia verso i luoghi di origine o peggio (come aiutare il coronavirus nella sua avanzata) per una vacanza forzata in qualche luogo di mare o montagna. E poi il solito assalto ai poveri supermercati. Quella mattina della domenica, mi alzo di buona lena per raccogliere le ultime notizie. Confermato il blocco della mia regione, decido di mettere via, chiudere casa e partire il prima possibile.
I giorni prima avevo vissuto in Toscana in uno strano stato di sospensione. Ero arrivato con il maltempo. Appena scaricate le valigie nella mia casetta, decisi di recarmi in spiaggia a Fiumetto. Ero attratto dal mare in tormento.

Fotografia di Paolo Maggioni Conte: Spiaggia di Marina di Pietrasanta Giovedì 5 marzo
Lo spettacolo che mi si offriva davanti non faceva altro che aumentare la tione del cattivo presagio. Guardavo una spiaggia con il cielo minaccioso, la sabbia color cenere vulcanica, il mare di stagno liquido e pensai le cose più inquietanti. Dal punto in cui mi trovavo potevo vedere quanti calpestii si erano incrociati nei giorni successivi. Ora sembravano quasi la tetra e labile testimonianza di una civiltà scomparsa. Effetto coronavirus? di sicuro. La realtà è che si trattava di una giornata piovosa in un giorno feriale , in una regione che non aveva ancora subito alcun blocco (attuato puntualmente per tutto il paese il martedì 10 marzo seguente) e con pochi casi positivi. Pensai subito riguardo a questa strana inquietudine, che le pesti dei secoli precedenti, assieme ad una duplicazione del loro DNA attraverso le nostre cellule, devono aver lasciato una sorta di memoria genetica di questi eventi, che trasuda nei momenti di crisi in un’ ansia inspiegabile.

Fotografia di Paolo Maggioni Conte : Stesso luogo sabato 7 marzo
Due giorni dopo, sabato 7 marzo infatti, c’era un cielo terso, le nuvole cesellate con dettaglio nel cielo e un mare di oro e antracite. La sabbia si era trasformata in un piatto specchio delle migliori brame. Lungo la battigia, gruppi di persone parlavano quiete e silenziose, una ragazza era persino in trasparenti da spiaggia, due ragazzini facevano volare un palloncino e qua e là passeggiatori solitari con i loro cani si incrociavano con patiti del jogging. Bastava che il pittore (la realtà) avesse virato i colori e il numero di presenze della tela, per provare una sensazione di rassicurante tranquillità. Ora quelle orme erano solo la manifestazione di vita e movimento.
Fotografie di Paolo Maggioni Conte
Avevo vissuto una quarantena di fatto. Mi ero limitato a fare una veloce spesetta in un supermercato. Niente ristoranti, negozi o bar. In fondo non ero lì in vacanza e mi dissi che forse sarebbe stato meglio per il mio bene e quello degli altri ridurre al minimo i contatti.
Quella domenica, mi misi quindi in strada per Milano passando per la Cisa. Sapevo che era mio dovere e necessità tornare a Milano. Non nascondo che lasciai la Versilia con un velo di malinconia. Avevo ancora in mente quel tramonto di oro e argento e il suono delle onde farcito di flebili vocine. Un tepore si incuneava nell’aria ancora frizzante dell’inizio di marzo. E poi, alle spalle, apparivano altere le Alpi Apuane con cappucci di neve. Sembravano l’alter ego pietrificato delle onde del mare. Quante volte avevo confuso le cave bianche di marmo che scoprivano le gengive delle vette con la neve. Questa volte c’erano entrambe, le cave di marmo e la neve. Sono nette e frastagliate queste vette, per questo, caso unico in tutta l’Italia centrale, si chiamano Alpi. Insomma scoprivo, forse per la prima volta e con lo sguardo di chi ha la sensazione di vedere un posto per l’ultima volta, quanto sia ricolmo di bellezza. Mi sentivo avvolto ancora da una specie di protezione arcana, simile a quella di un grembo materno, e avrei voluto rimanervici per sempre. Poi quella, era la terra dove solo 3 anni prima avevo girato le immagini per il mio documentario sul poeta Shelley, vissuto e poi morto proprio in quei luoghi. Anzi il suo corpo venne ritrovato nel 1822 a 3 chilometri più in giù su questa stessa costa. Forse per questo il legame con questo posto è andato crescendo nel tempo. Poi pensavo alla casetta acquistata dai miei con tanti sacrifici. Piena di quadri di navi, barche e conchiglie, e la stanzetta con il mobilio in stile marinaro, in ricordo del nonno materno marinaio.
Fotografia di Paolo Maggioni Conte
Pensieri contrastanti si rincorrevano nella mia mente, mentre guardavo lo Sparadrap grigio con tratti bianchi lampeggianti, scorrere sotto il cofano della mia macchina, con la Versilia alle spalle. Mi venivano in mente le parole nella Peste di Albert Camus:
“La parola peste era stata appena pronunciata, per la prima volta. A questo punto del racconto che lascia il Dottor Rieux dietro la sua finestra, si concederà al narratore di giustificare l’incertezza e la sorpresa del dottore, dato che la sua reazione, con le dovute sfumature, fu simile a quella della maggior parte dei nostri concittadini. Le epidemie, in effetti, sono una cosa comune, ma si crede difficilmente che siano possibili quando ci cadono sulla testa. Ci sono state tante pesti quante sono state le guerre. Eppure sia l’una che l’altra trovano l’uomo totalmente impreparato…”
Dopo pochi chilometri, le Alpi Apuane si divaricavano sulla destra come in segno di deferenza nei confronti dei più austeri contrafforti dell’Appennino. Anche questo tratto di strada completamente vuoto dal traffico, ero deciso a guardarlo con occhi diversi. Anzi, non era nemmeno una questione di scelta, c’era una specie di imperativo dell’emozione che mi faceva divorare con gli occhi il paesaggio. Quando si imbocca la strada che sovrasta la Valle del Magra, in direzione di Parma, appaiono, come miraggi, antichi borghi raggomitolati, così precisi nelle loro linee di demarcazione, da sembrare presepi costruiti all’interno di prue ben scolpite.

Il borgo antico di Caprigliola in una foto di Davide Papalini (fonte Wikipedia)
Lungo l’Appennino tosco-emiliano, come nel resto d’Italia, è tutto un susseguirsi di borghi, corni e rupi smussate di antiche montagne, e squadriglie di vette che imbruniscono all’orizzonte. Anche qui la neve enfatizza le vette degli Appennini, spesso rese discrete e irrilevanti nei periodi estivi. Rispetto al paesaggio lucente e mediterraneo delle Alpi Apuane, qui capisci di trovarti in zona continentale. Le foreste sono scure e dense, le valli sono conche che ricordano la forma incava e decisa delle cariole e sono disseminate di pascoli, paesi, antri e rocce sdentate. Era la prima volta che viaggiando, mi soffermavo su ogni dettaglio di questa complessa morfologia, sulla sua geologia che ti proietta in un attimo con la fantasia, in ere geologiche antichissime. Mi ero quasi commosso nel pensare a quale prodigiosa commistione si fosse compiuta in questo paese tra la terra e l’uomo.
Nel vedere i mille campanili, come fari nel mare verde scuro delle foreste, penso anche che la fede, in questo momento, si sia anch’essa ossequiosamente inchinata ai dettami della scienza. Stiamo assistendo ad una specie di paradosso per cui il “dogma” scientifico sembra aver sostituito brutalmente quello religioso. Che sia per il bene di tutti, lascio che sia la storia a dircelo in futuro. Credo però che il ruolo della fede sia quello di parlare nei momenti di crisi profonda a l’mmanente per ricordargli la natura trascendente dello spirito umano. E invece tace. Per chi ha fede, rischia di diventare una realtà, il quesito ammonimento di Gesù “Quando tornerò sulla terra, troverò ancora la fede?” Nessun giudizio morale su questo. Anzi, credo che la scienza sia stata fin troppo bistrattata, ignorata e persino snobbata in tutti i suoi avvertimenti (dal clima alla natura) e questo è il suo momento anche di rivincita mediatica. Quello che non capisco è perché la branca che si occupa del corpo, e delle sue paure, debba spegnere bruscamente quella che si occupa dell’anima. Persino il papa trasmette in streaming l’Angelus. So che Francesco è più forte del momento contingente, ma chi mi dice che un domani un Papa non venga ridotto a ologramma?

Un tipico borgo dell’italia centrale, nelle Marche. Foto di Paolo Maggioni Conte

Crinale del Monte Giovo, pubblico dominio Wikipèdia
Mentre guidavo in ammirazione, pensai: “Ma perché tutti questi borghi abbandonati e circondati da terre tornate vergini, non vengono ricolonizzati dalle genti annoiate e alienate delle nostre periferie. Un esodo e un isolamento, che avrebbero più il sapore di un eden ritrovato che di una prigione. Si potrebbero ripopolare senza sovraffollarli i tanti borghi medievali semi abbandonati. Gli anziani rimasti, levate le diffidenze iniziali anche di paura per il contagio e naturali per gente abituate alla solitudine e tranquillità (di cui in un certo senso sono divenute gelose), potrebbero contare su nuove braccia. Per ristrutturare, ricoprire, aggiustare, dissodare, ripulire, arare, raccogliere. Comparirebbero i bambini. Giovani senza futuro e cinquantenni disoccupati da decenni, tornerebbero a coltivare le terre, costruire pulpiti, tavoli, mobili, a pitturare, aggiustare ferri e arnesi. Non servirebbero i libri, basterebbe ascoltare gli anziani del luogo e guardare le opere dei nostri antichi pittori come il Giotto, il Gentile da Fabriano, Il Michelangelo o il Botticelli, per capire come rimodellare i territori e i mestieri.
Basta guardarli, questi meravigliosi borghi italici, per comprendere di come siano stati concepiti per stringersi in comunità ma anche per tenere qualsiasi nemico fuori le mura o per spegnerlo all’interno. Virus compresi. Sì! Assedi e quarantene hanno plasmato le nostre genti. Già! La quarantena. Molti ne parlano come fosse la scoperta DEL secolo, mentre è stata la pratica DEI secoli. . Stiamo applicando, pensavo tenendo il volante fisso sulle 10.15, un metodo vecchio come il mondo, fatto passare per un’esigenza di quello nuovo. Sono i soliti teorici del complotto e cospirazionisti, che tra scienza e fede sembrano essere i veri vincitori, SEMPRE.
Comunque la quarantena nacque proprio secoli fa con lo stesso obiettivo di oggi. Quei borghi in bilico, come nidi del cuculo consentivano una maggior protezione e controllo sui passaggi in entrata e in uscita. Scrive Wikipedia sulla Quarantena “Un documento originale datato 1377, che è custodito negli Archivi di Ragusa, stabilisce che prima di entrare nella città, i nuovi arrivati dovevano passare 30 giorni in un luogo ad accesso limitato (in origine vicino alle isole) in attesa di vedere se i sintomi della peste si fossero sviluppati. In seguito, l’isolamento fu prolungato a 40 giorni[3] e venne chiamato quarantena.”
Forse questi poveri anziani in questo momento, là in quei borghi isolati, sono più al sicuro. Nelle città invece il coronavirus se li sta prendendo a centinaia. Ma in quella società utopica, di cui fantasticavo guidando, avremmo potuto sperare in un nuovo patto sociale tra le generazioni. “Noi vi diamo la conoscenza, la pazienza e la saggezza” direbbero questi anziani a noi, “Noi la forza e la volontà” potremmo dire loro. Si, la terra è un paradiso per gli esuli giusti anche se pazzi ma il Coronavirus non volerà sul nido del cuculo!
Pensando a quanti tra nostri nonni e padri fossero agonizzanti negli ospedali di mezzo nord, piansi di nuovo.

Paesaggio tipico sulla Cisa, fotografia di Melancholia~itwiki (fonte wikipedia)
Tra Berceto e Fornovo di Taro poi, apparivano come dal set di un Jurassic Park, le imponenti formazioni geologiche sedimentarie, riemerse dagli abissi come giganteschi palazzi degli dei crollati su un lato.
Questo Coronavirus, aveva cambiato qualcosa nel modo in cui percepivo ogni segno di questo paese. Scendendo verso Parma, sulle lunghe rampe paraboliche che conducono alla pianura padana, mi accorsi che persino le manifestazioni urbanistiche della operosa industria del nord, che un tempo criticavo come nemiche della natura e del paesaggio, mi apparivano ora come un miracolo della volontà e dell’ingegno italico, miraggi di una capacità irripetibile di piccole e medie imprese disseminate sul tappeto padano come uno stuolo di fieri stendardi.
Tornando a casa da mia moglie, capì che forse, quello che veniva messo in pericolo, anche solo per una finestra di tempo, andava ben al di là di facili equazione ed era il frutto virtuoso di milioni di anni di evoluzione terrestre e centinaia di tenace antropologia umana. Piansi e tornai nella Lombardia ormai tutta in quarantena, con questa consapevolezza, non so se truccata dall’emergenza o sincera, ma era lì, pesante e certa. Ora mi attendeva una quarantena di settimane e forse più. E mi terranno compagnia le immagini di quel viaggio fatto più volte, ma fatto veramente una sola volta quel giorno. Intanto la radio già preannunciava la quarantena totale.
Paolo maggioni Conte