Le immagini del fattaccio
Questa mattina alle 9.00, mi reco al supermercato per la spesa, contando di fare una piccola scorta settimanale. Siamo un giorno dopo l’annuncio del decreto governativo, firmato alle 23.45 di sabato, volto a delimitare le zone rosse soggette a quarantena per il coronavirus (Covid19). Lo spettacolo a cui mi sono trovato davanti, benché non catastrofico, mi ha fortemente inquietato. Inquietato perché la provincia sud di Milano, dove vivo, è nelle c.d. aree gialle, nelle quali non vige ancora alcuna quarantena.



Scaffali vuoti in un supermercato della provincia di Milano il giorno 24-02-2020
Stesso scenario mi è stato riferito da un mio amico a nord di Milano, in un supermarket della zona.
Naturalmente non sostengo, per prendere subito le distanze dai catastrofisti, che questa situazione sia diffusa contestualmente sul territorio. Probabilmente è avvenuto a macchia di leopardo e in tempi diversi. Le foto non testimoniano necessariamente l’apocalisse, ma solo come un sistema di rifornimento ben rodato sia stato messo, seppur momentaneamente, in crisi da comportamenti che definisco antisociali.
Ci troviamo di fronte allo stesso tipo di comportamento irrazionale, governato dal panico, a cui abbiamo assistito in tempi recenti. Senza che si debba scomodare la storia dell’inizio del XX sec, coloro che non sono giovanissimi come me, ricorderanno ad esempio la SARS del 2003 o la prima Guerra del Golfo del 1992. Solo che qui non siamo in guerra.

L’italico malcostume
Credo che questo atteggiamento, vada ricercato nella configurazione antropologica di una parte della società, che reagisce irrazionalmente, e aggiungo spregiudicatamente, alle crisi reali o presunte, in qualunque forma esse si presentino. E’ come un moto meccanico che agisce sempre secondo lo stesso schema , sotto l’impulso di un becero e irrazionale istinto di accaparramento. Un istinto egoistico potenzialmente distruttivo, suscettibile di minare la tenuta democratica o comunque sociale. Specie nelle democrazie “incompiute” come la nostra, dove è un’endemica la confusione tra bene comune e libertà personale.
Da una parte vi è la necessità , credo, di arginare assieme al virus, questi comportamenti. Per ora sono stati solo un anticipo di quello che potrebbe accadere, ed è accaduto, su vasta scala se la situazione peggiorasse. E anche se i rappresentanti della GDO si sono affrettati a ricordare che l’emergenza virus non ha fermato il sistema logistico dei rifornimenti agroalimentari, le logiche che scatenano questi episodi sono governate da meccanismi propri di tipo irrazionale.
Dall’altra, occorre zittire (per non dire censurare) le fake news che circolano, esse sì, in maniera virulenta. Sono la benzina sul fuoco delle paure individuali e dell’ignoranza, che si trasformano poi in azioni collettive. E non cercherò di fare qui parallelismi di tipo etologico riferibili al regno animale, facile via per ridurre l’uomo a essere puramente istintivo ed evitare spiegazioni più complesse.
Le fake news
A proposito di questo coronavirus e del panico generatosi, stanno circolando le teorie più stravaganti. Queste, come possiamo immaginare, se non ne sono la causa, di certo ne sono il carburante, come detto prima. La cosa grave, è che grazie alla democratizzazione dei mezzi e delle tecnologie di comunicazione dell’era digitale (che di per sé è e doveva essere un fatto positivo), questi messaggi falsi si moltiplicano in una logica che io considero molto simile a quella dei frattali:
Mi spiego. Ogni messaggio principale è composto da una miriade di messaggi, che sono la sua replica esatta in scala ridotta, e il processo va avanti tendenzialmente all’infinito. Non stupiamoci se queste fake news hanno ormai il potere di influenzare le opinioni fino a questo punto. Le vecchie generazioni, ferme ancora alla struttura analogica di tipo lineare della comunicazione televisiva, faticano a comprendere questo meccanismo.
Il complottismo
Sono presentate come credibili da pseudo-scienziati, virologi senza curriculum e cospirazionisti dell’ultima ora. Eppure sono tutte facilmente riconoscibili, perché riconducibili ad uno schema che sembra epistemologico e dialettico. Ma che scade presto, smascherandosi da sé, nella liturgia paranoica sulla cospirazione mondiale.
Esempi di questo messianismo del complotto, sono le “teorie” sull’origine artificiale del virus. Sparso, secondo i suoi sostenitori, da nemici occulti per un uso bellico, e mettere K.O. intere nazioni. In questo caso, voci anche “autorevoli”, che vediamo spesso anche nella obsoleta televisione (ma che ha ancora un ruolo referenziale), sostengono la tesi secondo cui gli americani avrebbero diffuso il virus in Cina, allo scopo di nuocere alla sua economia e degradarla così nella classifica delle superpotenze.
Oppure, come per la comparsa dei pesci nel Mar Morto, sarebbe un castigo della natura, quando non di Dio, in accordo con le più volgari profezie millenaristiche, che affliggono la storia dal primo tratto su una pietra ad oggi.
Che dire infine del filone del “Protocollo dei Savi di Sion” , nato nel XIX Sec. nella Russia zarista e che riemerge come rigurgito ciclico dai tombini della storia. Secondo questa teoria cospirazionale, un gruppo ristretto di élite economica e politica (nel protocollo non potevano non figurare gli ebrei) compie tutta una serie di manovre occulte al fine di impadronirsi del mondo e governare le masse e la storia a proprio beneficio.
Sul caso Coronavirus poi, le teorie finiscono, ormai esauste, nei nessi di causa effetto più grotteschi. Come quelle che vorrebbero che il virus sia stato inventato e diffuso dalle multinazionali delle mascherine e dei disinfettanti o dai demiurgi di multinazionali farmaceutiche che costruirebbero un virus spendendo uno, nella speranza, neanche certa, che il suo antidoto porti 10!
Insomma, ci rendiamo conto di quanto tutto questo sia assurdo, eppure i proseliti non mancano mai ad ogni crisi o scossone, e corrono prima nei circuiti digitale e approdano ai bar di quartiere.
Le epidemie sono sempre esistite
I virus sono sempre esistiti e sempre esisteranno. In passato si identificavano come pestilenze e morbi con vari nomi, nel tentativo rudimentale di delimitarle sulla sintomatologia. Ci sono voluti 30 secoli, prima che l’uomo uscisse dalla conta ossessiva degli effetti di una malattia, e cominciasse ad avventurarsi nella illuminata indagine delle sue cause.
Vogliamo buttare via tutto questo, solo perché, per pigrizia mentale e incoscienza, non siamo più in grado di contenere la pattumiera digitale o i sussulti barbarici di una parte della popolazione che scade sempre nel mal di pancia?
L’unico nesso di causa-effetto sulla diffusione dei virus, che possa avere un qualche fondamento, è quello di una sempre maggior prossimità pervertita tra ambiente umano e ambiente naturale, ormai contrassegnata dal conflitto sempre a scapito del secondo. La distruzione delle foreste, l’urbanizzazione tentacolare e disordinata dei territori selvatici, costringe milioni di animali a migrare in ambienti di confine e ad adattarsi alla promiscuità di transizione, con il suo carico potenzialmente virale e sconosciuto. Poi, come per il caso della Cina, gli animali selvatici vengono incatenati vivi e a forza, a scopi alimentari e omeopatici, in angusti mercati, dove si assiste a tutto lo scibile della zoologia dell’impossibile, in cui anatre, polli, cani e conigli, coabitano con scimmie, procioni, orsetti, rettili e insetti di ogni genere ancora senza nome scientifico, in un paradigma pressoché irraggiungibile di densità biologica per m2.
Alcuni di questi virus si potevano evitare, forse, se si fossero banditi nel 2003, i pantagruelici quanto clandestini mercati cinesi di zoologica ecatombe, citati prima.
Non abbiamo imparato nulla
L’altro nesso, dimostrato storicamente, sono i commerci. La peste del 1340, arrivò assieme ai topi e pidocchi (trasmettitori della malattia) grazie alle rotte orientali dal Mar Nero. E poi la peste del 1720 a Marsiglia, per citarne una appena più lontana della spagnola del 1918, ben documentata nei registri. Anch’essa arrivò sul navi commerciali, costrette poi, quando fu troppo tardi, ad una quarantena forzata sulle isole vicine. Anche in quel caso fu un paziente zero, più o meno consapevolmente, ad introdurla oltre il fondaco portuale e fortificato della città. Risultato, migliaia di morti, in un sistema ancora fortemente immaturo dal punto di vista sanitario e scientifico.
Peste di Marsiglia del 1720Via di diffusione della peste nera del 1300.
Oggi le rotte commerciali umane e affaristiche, viaggiano via aerea (come i virus) ad una velocità che finisce per sovrascrivere i progressi scientifici, costringendoli ad una corsa perenne contro il tempo. La complessità economica e sociale , esasperata dalla globalizzazione dell’economia, moltiplica le isterie in maniera aritmetica.
Smontiamo le teorie del complotto
Nessun complotto ad esempio, dietro la schizzata dei prezzi delle mascherine, ma una ben noto pilastro dell’economia di mercato, secondo il quale vi è una relazione direttamente proporzionale tra l’aumento della domanda e il prezzo di un bene. Semmai vi è la speculazione di chi, approfittando di un automatismo economico del paradigma liberista, moltiplica per dieci il prezzo di un bene.
Nessun complotto quindi dietro il caos coronavirus. Ma solo la confusione generata dalla sua contestuale e sintomatologica sovrapposizione all’influenza stagionale, ad un deficit di trasparenza iniziale delle autorità cinesi (a cui hanno tentato di rimediare in seguito) e alla novità del virus stesso.
Nessuna cospirazione mirante a sopravvalutare (o il suo contrario) la pericolosità del coronavirus. Solo l’evidenza di un virus (ora non curabile e contro il quale si stanno spendendo ricerche e vite) ad alto tasso di contagio e potenzialmente mortale per alcune fasce di popolazione. La morte di alcune persona in là con gli anni e magari con patologie pregresse, non può farci tirare un cinico respiro di sollievo. Si tratta di nostri padri e nonni. E non è detto che non muti e non cambino le fasce di popolazione potenzialmente prese di mira.
Conclusione
Il saccheggio dei supermercati, è stato innescato da una semplice crisi sanitaria, nella sesta potenza economica mondiale, in tempo di pace, con servizi all’avanguardia e una alfabetizzazione completa della popolazione. Questo non può non farci riflettere sulla fragilità relativa di un un sistema (il nostro) in cui il senso civico e la conoscenza sono ancora sculture incompiute del progresso.
Le immagini sopra, sarebbero in parte giustificate, solo se fossero la copertina di un collasso economico generale o di una guerra in un paese autarchico. Non a fronte di una emergenza sanitaria epidemiologica, con istituzioni, infrastrutture funzionanti e inserite in un contesto europeo prima e mondiale poi.
Nel terzo mondo, sono decenni che combattono guerre, emergenze alimentari ed epidemie, con una dignità che avrebbe dovuto farci vergognare. Il nostro atteggiamento è stato quasi sempre quello di un distaccato compatimento, paternalistico. Anche nei confronti dei nostri concittadini (medici, missionari e volontari) che con atteggiamento “stoico” mettevano le mani nelle piaghe del mondo.
Ora che la globalizzazione ha portato quegli stessi problemi nelle nostre prospere fortezze, adorne di effigi e monumenti della civiltà, non abbiamo trovato nulla di meglio da fare che tirar fuori i nostri istinti più triviali. Questo mi lascia l’amaro in bocca, ma non senza speranza.
Siamo ancora pieni di potenzialità umane e civili. Dobbiamo solo imparare a farci sentire di più e a usare un tono di voce di un decibel ogni volta più forte, di quello della becera accozzaglia pronta a destabilizzare la parte sana della società mondiale.